L’eccesso di fruttosio fa male al fegato dei bambini

Uno studio dei ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per la prima volta dimostra la correlazione tra il consumo di alte quantità di questo zucchero e lo sviluppo di malattie epatiche gravi. I risultati dell’indagine pubblicati sul Journal of Hepatology.
L’abuso sistematico del fruttosio aggiunto ai cibi e alle bevande ha un effetto pericoloso sulla salute di bambini: le quantità assunte quotidianamente in eccesso accrescono di una volta e mezza il rischio di sviluppare malattie epatiche gravi. La conferma scientifica arriva da uno studio dei ricercatori dell’area di Malattie epato-metaboliche dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù che, per la prima volta in letteratura, rivela i danni del fruttosio sulle cellule del fegato dei più piccoli. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Hepatology.
Lo studio è stato condotto tra il 2012 e il 2016 su 271 bambini e ragazzi sovrappeso o obesi affetti da fegato grasso. In 1 bambino su 2 gli esami effettuati hanno rilevato livelli eccessivi di acido urico in circolo. L’acido urico è uno dei prodotti finali della sintesi del fruttosio nel fegato. Quando è prodotto in grandi quantità diventa tossico per l’organismo e concorre allo sviluppo di diverse patologie. Attraverso ulteriori indagini, incrociate con i dati emersi dal questionario alimentare somministrato ai pazienti, i ricercatori hanno dimostrato anche l’associazione tra gli alti livelli di acido urico e l’aggravarsi del danno al fegato, soprattutto tra i grandi consumatori di fruttosio. In particolare è stato rilevato che la larga maggioranza dei bambini e ragazzi partecipanti allo studio assumeva una quantità media giornaliera di fruttosio superiore a 38 grammi. Un livello ben al di sopra del limite massimo giornaliero di zuccheri aggiunti indicato dall’American Hearth Association: l’associazione dei cardiologi americani in un recente articolo pubblicato su Circulation raccomanda, infatti, di evitare l’uso degli zuccheri aggiunti (glucosio, galattosio, fruttosio, saccarosio) nell’alimentazione dei bambini sotto i 2 anni e di non superare il limite di 25 grammi al giorno tra i 2 e i 18 anni.

IL FRUTTOSIO AGGIUNTO
Il fruttosio è uno zucchero naturale presente in diversi alimenti, soprattutto nella frutta ma anche nei vegetali e nelle farine utilizzate per pasta, pane e pizza. In una dieta bilanciata, il consumo di fruttosio naturalmente contenuto nei cibi non provoca alcun effetto negativo. I problemi a carico del fegato dei bambini derivano dall’abuso quotidiano, sistematico, di fruttosio aggiunto presente negli sciroppi e nei dolcificanti utilizzati principalmente dall’industria nelle bevande e in varie preparazioni alimentari.

I MECCANISMI DEL DANNO AL FEGATO
Il fruttosio viene metabolizzato, ovvero scomposto e trasformato, principalmente nel fegato. Questo processo di sintesi produce energia per il corpo, ma anche altri derivati come l’acido urico. Se la quantità di fruttosio ingerita sistematicamente è eccessiva, il percorso metabolico si altera e viene prodotto troppo acido urico. Quando l’organismo non riesce a smaltire le alte concentrazioni in circolo, si innescano meccanismi pericolosi per la salute: aumenta lo stress ossidativo (i vari componenti delle cellule vengono danneggiati dalla rottura dell’equilibrio cellulare) e si attivano insulino-resistenza e processi infiammatori delle cellule epatiche. Questi meccanismi sono precursori dell’insorgenza del diabete e del fegato grasso. Nei bambini con il fegato già compromesso, accelerano la progressione della malattia verso stadi più gravi (steatoepatite non alcolica, fibrosi epatica, cirrosi).

I ricercatori del Bambino Gesù hanno quindi dimostrato che i bambini con abitudini alimentari sbagliate, sottoposti a un sistematico “bombardamento” di fruttosio, corrono un rischio aumentato di sviluppare patologie del fegato.

«Diversi studi hanno provato che l’elevato consumo di zucchero è associato a numerose patologie sempre più frequenti in età pediatrica come l’obesità, il diabete di tipo II e le malattie cardiovascolari. Ma poco si sapeva del suo effetto sul tessuto epatico, almeno fino ad oggi» spiega Valerio Nobili, responsabile di Malattie Epato-metaboliche del Bambino Gesù. «Con la nostra ricerca abbiamo colmato la lacuna: abbiamo infatti dimostrato che un eccessivo consumo di fruttosio si associa ad alti livelli di acido urico e soprattutto a un avanzato danno epatico, tanto da favorire la precoce comparsa di fibrosi prima e cirrosi poi a carico del fegato. Ecco perché, alla luce di quanto certificato dal nostro studio, è fondamentale non abusare di cibi e bevande con un elevato contenuto di fruttosio, modificando le errate abitudini alimentari dei nostri ragazzi».

[ tratto da: www.ospedalebambinogesu.it/fruttosio-danni-fegato]

I vaccini contro la meningite

Abbiamo già trattato l’argomento nella pagina “la meningite”, ma vogliamo continuare a parlarne…

Le meningiti sono malattie infettive acute, caratterizzate dall’infiammazione del rivestimento del cervello e del midollo spinale: le meningi. In Italia, negli ultimi anni, vengono segnalate circa 1.000 meningiti batteriche l’anno in tutta la popolazione. La fascia di età più colpita è quella pediatrica e in particolare i bambini sotto l’anno di età.
Le meningiti possono essere causate da batteri, virus, funghi e parassiti. Quelle più gravi e pericolose sono quelle batteriche, che possono determinare la morte del soggetto colpito o esiti gravemente invalidanti.
Tutti possono ammalarsi di meningite, ma i soggetti più colpiti sono i bambini, in particolare se molto piccoli; soggetti a rischio sono anche gli anziani, chi soffre di problemi immunitari e chi di altre patologie croniche.

Nei neonati (entro 28 giorni di età) i germi coinvolti sono:
* lo Streptococco di gruppo B;
* l’Escherichia Coli;
* la Listeria Monocytogenes.

In tutte le altre età 3 sono le famiglie di batteri responsabili della quasi totalità dei casi:
* lo Streptococco Pneumoniae (Pneumococco);
* la Neisseria Meningitidis (Meningococco);
* l’Haemophilus Influentiae di tipo B (Emofilo).
CONTAGIO E SINTOMI

Le meningiti sono malattie particolarmente contagiose. L’infezione può trasmettersi attraverso le goccioline di saliva -parlando, tossendo, starnutendo- se ci si trova a stretto contatto (entro 1 metro di distanza) con un soggetto malato.

I sintomi con cui può presentarsi la meningite sono numerosi e tra questi i più frequenti sono:
– febbre alta;
– dolore al collo o rigidità del collo;
– mal di testa;
– vomito;
– sonnolenza;
– convulsioni;
– fontanella anteriore rigonfia nei lattanti.

Nei lattanti e nei piccoli bambini, la meningite può manifestarsi, soprattutto nelle fasi iniziali, con sintomi più sfumati come inappetenza, irritabilità e febbricola.
Un bambino con sintomi sospetti di meningite deve essere visitato al più presto da un medico che, qualora confermi il sospetto, invierà il paziente al Pronto Soccorso pediatrico più vicino.
DIAGNOSI E CONSEGUENZE

La storia clinica del paziente e la visita indirizzano molto alla diagnosi, che deve essere confermata con esami del sangue, ma in particolare con l’esame del liquido cefalorachidiano che viene prelevato attraverso la puntura lombare (tramite un ago infilato nella parte bassa della schiena, attraverso la colonna vertebrale. Nonostante gli importanti progressi della medicina, delle terapie rianimatorie e di terapia intensiva, ancora oggi il 10-15% dei soggetti colpiti da meningite muore, il 20-30% ha conseguenze gravi e invalidanti (amputazioni, danni cerebrali, sordità, epilessia, paralisi, ritardo neuropsicomotorio.).
COSA FARE IN CASO DI CONTATTO

In caso di contatto stretto e prolungato con un soggetto affetto da meningite batterica, deve essere praticata una terapia antibiotica su prescrizione medica specifica per il tipo di germe responsabile. Purtroppo le meningiti sono malattie molto gravi e anche quando la diagnosi viene fatta tempestivamente, e la terapia antibiotica praticata subito e in maniera adeguata, la possibilità di guarire senza esiti è inferiore al 50% dei casi.

Tanto più precoce è il trattamento, tanto maggiori sono le probabilità che il trattamento abbia successo e che la malattia guarisca senza esiti.
L’IMPORTANZA DEL VACCINO

La vaccinazione rappresenta l’unico modo al momento disponibile per prevenire le meningiti batteriche. Esistono vaccini per ciascuna famiglia dei principali batteri responsabili.

* Contro l’Haemophilus Influentiae di tipo B il vaccino è incluso nel vaccino esavalente la cui prima dose viene somministrata già a partire dal 61° giorno di vita (terzo mese).

* Contro lo Pneumococco è disponibile un vaccino che protegge da 13 differenti ceppi di Pneumococco (anche questo praticabile dai primi mesi di vita).

* Conto il Meningococco esistono diversi vaccini. Un vaccino contro il Meningococco C, uno contro il Meningococco B e un vaccino in grado di proteggere da 4 diversi ceppi (A, C, Y, W 135).

Parlando con il proprio Pediatra e/o Medico di fiducia, è possibile stabilire la migliore modalità per proteggere il proprio figlio, in base all’età del bambino. Tutti i vaccini contro la meningite sono sicuri e sono stati praticati in numerosissime dosi -i più nuovi in molte migliaia, i più datati in milioni di dosi. I vaccini rappresentano al momento l’unica possibilità per prevenire queste gravissime malattie. Purtroppo, ancora oggi, l’80% delle meningiti è dovuta a germi per i quali sono disponibili vaccini; questo significa che 800 dei 1.000 casi di meningite presenti in Italia potrebbero essere evitati.

Tratto da   www.ospedalebambinogesu.it/meningiti-b

Quando la mamma è anaffettiva.

La mamma è un punto cardine nella crescita emotiva del bambino.

Crescere con una mamma anaffettiva può creare serissimi danni: senso di abbandono e incapacità di riconoscersi come individuo e genera paura, ansia, senso di colpa facendo leva  sulla sua paura di perdere la relazione o di entrare in conflitto.

Generalmente queste madri sono persone che non riescono a rimproverare ma nemmeno sanno gratificare e sostenere i loro banbini. Sono incapaci di esprimere le proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di manifestare amore. Non sanno proteggere, tranquillizzare, insegnare, consolare, ma riescono benissimo a squalificare, criticare, demotivare, scoraggiare, opprimere, intimidire, ricattare… in modo gelido e distaccato.

La madre anaffettiva riuscirà a rinfacciare ai figli adulti i sacrifici fatti per loro, avrà un comportamento da vittima e ricatterà moralmente i figli inducendoli ad un senso continuo di colpa facendoli sentire responsabili del suo malessere e persino della sua vecchiaia. Avranno continue richieste, lamenti chiedendo di essere aiutata e protetta mentre il suo atteggiamento concreto è quello di pensare solo a sé stessa. Mostra gelosia nei confronti dei figli adulti, per il loro successo con le persone, o magari per il loro lavoro.

 

 

I danni creati dal padre assente

Studiando  più a fondo il ruolo dei genitori nello sviluppo del bambino, gli psicologi sono arrivati ad individuare  l’importanza e la rilevanza della figura paterna durante l’infanzia.

La mancanza affettiva costante di un padre è un disagio profondo per il bambino e può creare seri danni psicologici e  lasciare un segno per tutta la vita.

Possiamo definire l’assenza del padre in due modi:

  • l’assenza fisica  – che non permette la confidenza affettiva e il modo ed il tempo di far valere la propria autorevolezza in termini di discussione, accordo e rispetto delle regole educative.
  • l’assenza progettuale o emotiva – E’ un padre assente,  anche colui che non dà il suo apporto al progetto genitoriale.

L’assenza fisica ha lo stesso peso dell’assenza emotiva e progettuale. Quando ci si riferisce all’assenza paterna si fa riferimento anche alla mancata capacità di accogliere le richieste dei propri figli, di amarli, di abbracciarli e di sorreggerli nelle difficoltà di ogni giorno.

Un padre può essere assente anche se si dedica solo al suo lavoro e non coltiva la relazione con i suoi figli. Un padre è assente quando beve, quando ha problemi con il gioco d’azzardo, quando è dipendente dalle sostanze, quando sceglie gli amici del bar alla propria famiglia, quando è troppo autoritario e impedisce, con la sua rigidità, la costruzione di un legame di cura e di affidamento.

 

Quali sono i problemi che si possono verificare nel bambino?

  • Autostima: il sentirsi non accettato o poco accettato dal padre, non avere la sua approvazione e il suo appoggio crea una riduzione della stima di sé stesso e non aiuta la formazione del carattere.
  • Difficoltà comportamentali: il bambino ha bisogno di un confronto continuo con il mondo esterno.  La figura del padre, in questo ruolo, non è solo “presenza fisica”, per aiutare il figlio nella crescita caratteriale deve  essere accompagnata dalle “presenza emotiva” dell’adulto che deve essere coinvolto, farne parte attiva, nei momenti importanti della vita del figlio.
    Si possono verificare comportamenti aggressivi e atteggiamenti da spavaldo, nel goffo tentativo di coprire la propria insicurezza.
  • Insicurezza e ansia: un padre che non è “dalla parte di suo figlio” genera insicurezza e ansia. Un padre assente che non mette in discussione positivamente le azioni del figlio o della figlia crea un segno negativo indelebile anche nell’età adulta. Questa situazione può provocare distacco sociale, superficialità nei rapporti, problemi di fiducia nei confronti degli altri.
  • Calo del rendimento scolastico: la condotta scolastica tende ad essere difficoltosa, con problematiche di inserimento, voti bassi e forte rischio di abbandono scolastico.

Si può sostituire la figura paterna?

Gli studi ci dimostrano come la presenza di una figura maschile possa compensare in parte il vuoto lasciato dall’assenza paterna.

Ovviamente nessuno sarà mai in grado di sostituire del tutto il proprio padre.  Nessuna presenza  potrà mai colmare quel senso di vuoto che resterà durante la crescita e l’adolescenza.

Imporante è quindi  circondare il bambino di adulti amorevoli, capaci di rispondere ai suoi bisogni: uno zio o un nonno possono rappresentare delle figure importanti a cui il bambino farà riferimento nel corso della sua crescita.
Un modello maschile affidabile, presente, in grado di richiamare in parte quel senso di autorevolezza necessario, garantirà al bambino di sperimentarsi nel rapporto con un uomo adulto.

 

La meningite

Malattie batteriche invasive: cause e agenti patogeni

I batteri che sono più frequente causa di malattie batteriche invasive sono tre:

  • Neisseria meningitidis (meningococco) alberga nelle alte vie respiratorie (naso e gola), spesso di portatori sani e asintomatici (2-30% della popolazione). La sua presenza non è correlata a un aumento del rischio di meningite o di altre malattie gravi. È stato identificato per la prima volta nel 1887, anche se la malattia era già stata descritta nel 1805 nel corso di un’epidemia a Ginevra. Si trasmette da persona a persona attraverso le secrezioni respiratorie. Il meningococco è un batterio che risente delle variazioni di temperatura e dell’essiccamento. Dunque, fuori dell’organismo sopravvive solo per pochi minuti. La principale causa di contagio è rappresentata dai portatori sani del batterio: solo nello 0,5% dei casi la malattia è trasmessa da persone affette dalla malattia.Esistono 13 diversi sierogruppi di meningococco, ma solo sei causano meningite e altre malattie gravi: più frequentemente A, B, C, Y e W135 e molto più raramente in Africa, X. In Italia e in Europa, i sierogruppi B e C sono i più frequenti. I sintomi non sono diversi da quelli delle altre meningiti batteriche, ma nel 10-20% dei casi la malattia è rapida e acuta, con un decorso fulminante che può portare al decesso in poche ore anche in presenza di una terapia adeguata. I malati di meningite o altre forme gravi sono considerati contagiosi per circa 24 ore dall’inizio della terapia antibiotica specifica. La contagiosità è comunque bassa, e i casi secondari sono rari. Il meningococco può tuttavia dare origine a focolai epidemici. Per limitare il rischio di casi secondari, è importante che i contatti stretti dei malati effettuino una profilassi con antibiotici. Nella valutazione di contatto stretto (che deve essere fatta caso per caso) vengono tenuti in considerazione:a) i conviventi considerando anche l’ambiente di studio (la stessa classe) o di lavoro (la stessa stanza)
    b) chi ha dormito o mangiato spesso nella stessa casa del malato
    c) le persone che nei sette giorni precedenti l’esordio hanno avuto contatti con la sua saliva (attraverso baci, stoviglie, spazzolini da denti, giocattoli)
    d) i sanitari che sono stati direttamente esposti alle secrezioni respiratorie del paziente (per esempio durante manovre di intubazione o respirazione bocca a bocca).La sorveglianza dei contatti è importante per identificare chi dovesse presentare febbre, in modo da diagnosticare e trattare rapidamente eventuali ulteriori casi. Questa sorveglianza è prevista per 10 giorni dall’esordio dei sintomi del paziente. Il periodo di incubazione è generalmente 3-4 giorni (da 2 fino a 10 giorni) Inoltre, bisogna considerare che il meningococco può causare sepsi meningococcica (un quadro clinico, talvolta molto severo, per la presenza del meningococco nel sangue con febbre alta, ipotensione, petecchie, insufficienza da parte di uno o più organi fino anche ad un esito fatale) che può presentarsi da solo o coesistere con le manifestazioni cliniche della meningite.
  • Streptococcus pneumoniae (pneumococco) è l’agente più comune di malattia batterica invasiva. Oltre alla meningite, può causare quadri clinici di sepsi (generalmente con una sintomatologia di febbre alta, con una forma non così severa come la spesi meningococcica) polmonite o infezioni delle prime vie respiratorie, come l’otite. Come il meningococco, si trasmette per via respiratoria ma lo stato di portatore è assolutamente comune (5-70% della popolazione adulta). Esistono più di 90 tipi diversi di pneumococco. Le meningiti e le sepsi da pneumococco si presentano in forma sporadica, e non è indicata la profilassi antibiotica per chi è stato in contatto con un caso poiché non si verificano focolai epidemici.
  • Haemophilus influenzae b (emofilo o Hi) era fino alla fine degli anni Novanta la causa più comune di meningite nei bambini fino a 5 anni. Con l’introduzione della vaccinazione con l’uso del vaccino esavalente i casi di meningite causati da questo batterio si sono ridotti moltissimo. In passato il tipo più comune era l’Haemophilus influenza b (verso il quale è diretto il vaccino), mentre oggi sono più frequenti quelli non prevenibili con vaccinazione. In caso di meningite da Hi, è indicata la profilassi antibiotica dei contatti stretti.

 

I sintomi della meningite sono indipendenti dal germe che causa la malattia. I sintomi più tipici includono:

  • irrigidimento della parte posteriore del collo (rigidità nucale)
  • febbre alta
  • mal di testa
  • vomito o nausea
  • alterazione del livello di coscienza
  • convulsioni.

L’identificazione del microrganismo responsabile viene effettuata su un campione di liquido cerebrospinale o di sangue.

Nei neonati, alcuni di questi sintomi non sono evidenti. Si può però manifestare febbre, convulsioni, un pianto continuo, irritabilità, sonnolenza e scarso appetito.

 

tratto da: www.epicentro.it

Il Disturbo Borderline

Premettiamo che il nostro articolo è puramente informativo, per diagnosticare qualunque disturbo è necessario rivolgersi ad un medico specializzato. Vogliamo solo capirci meglio, insieme a voi…[tratto da www.psicoadvisor.com]

 

Parleremo di un disturbo che  coinvolge variazioni dell’umore: il disturbo borderline  che è classificato come disturbo strutturale di personalità.

Il disturbo borderline di personalità  si manifesta in adolescenza, presenta modelli comportamentali coerenti nel tempo. Può essere descritto con quattro caratteristiche psicopatologiche:

  • disturbi affettivi (instabilità)
  • impulsività
  • problemi cognitivi
  • relazioni instabili

Le persone che soffrono di questo disturbo sono quindi facilmente irritabili, tristi, ansiosi e spesso si sentono “vuoti”.  Anche l’impulsività è un sintomo cronico di questo disturbo ed è diffcilissimo mantenere il controllo dei comportamenti e delle reazioni.  Possono esserci episodi di paranoia, allucinazioni uditive ed episodi di depersonalizzazione. I sintomi psicotici sono generalmente di breve durata e il soggetto è cosciente che “sta accadendo qualcosa di strano” senza sprofondare in pensieri deliranti.  I soggetti con personalità borderline sono manipolativi e sanno essere incredibilmente convincenti.

Le persone con disturbo borderline sono vittime di paure e insicurezze in grado di innescare comportamenti distruttivi per il prossimo o auto-distruttivi, non sempre riescono a capire la natura del loro comportamento ne’ come questo influisce sulla loro vita.

Anche se le loro azioni possono sembrare terribili, sono le loro paure e l’incapacità di avere prospettive razionali a indurre comportamenti eccessivi, estremi, inappropriati e distruttivi. La loro paura spesso può trasformarsi in rabbia perché non hanno molti canali introspettivi e cadono in esplosioni emotive di vario genere; attuano un gran numero di comportamenti sabotanti che solo raramente sono consapevoli. Insomma, il borderline tende a distruggere se stesso e rendere difficile la vita alle persone care… ma lo fa in modo inconsapevole, perché non conosce e non vede altre vie.

La scarsa capacità introspettiva non gli consente di riconoscere le emozioni che provano ne’ tantomeno di esprimerle in modo coerente. Spesso descrivono un vuoto emotivo che tentano di colmare con gesti estremi di varia natura.

Sono instabili nella loro immagine di sé, nei loro stati d’animo, nel comportamento e nelle relazioni interpersonali.

Sono molto arrabbiati, molto impulsivi e molto confusi sulla loro identità. Si sentono vuoti e tendono a stringere rapporti interpersonali drammatici e intensi.

Quando una persona con disturbo borderline si sente abbandonata, può diventare disperatamente impulsiva; il vuoto interiore riferito può spingere in promiscuità spericolate, guida spericolata, abuso di sostanze o addirittura a gesti auto-lesivi.

Sono molto facili alla noia e questo aumenta il senso di frustrazione, il senso di vuoto e gli atteggiamenti estremi.

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Come si vive con un soggetto boderline…

Avere una relazione con una persona con personalità borderline vuol dire vivere una relazione d’amore-odio, ossessiva, complicata ed instabile da cui purtroppo diventa davvero difficile uscire. Breve o lunga che possa essere la durata, la relazione con un borderline comporta un impatto destabilizzante nella psiche di chi la vive e lascia delle ferite emotive molto difficili da rimarginare.

I border possiedono delle qualità che li rendono molto attrattivi: non di rado sono persone notevolmente brillanti ed intelligenti, sono vitali, energici, sensibilissimi e molto intuitivi.

L’infanzia delle persone che svilupperanno da adulti il disturbo border di personalità è stata un infanzia traumatica segnata da esperienze di grave trascuratezza, di maltrattamento psicologico e non di rado di maltrattamento fisico o abuso sessuale.

LE 10 REGOLE PER IDENTIFICARE UN GIOCATTOLO SICURO

 

Alcune indicazioni utili per identificare un giocattolo sicuro in fase di acquisto:

1 Sulla confezione devono comparire in maniera visibile, leggibile, indelebile e soprattutto in lingua italiana:

–MARCATURA CE rappresenta la conformità ai requisiti essenziali di sicurezza del giocattolo. I giocattoli possono essere immessi sul mercato solo se provvisti della marcatura CE posta sul giocattolo stesso e/o sul suo imballaggio. La marcatura deve rispettare le specifiche e le proporzioni presenti e deve avere un’ altezza minima di 5 mm;

–IL NOME E INDIRIZZO DEL PRODUTTORE, DELL’IMPORTATORE O DISTRIBUTORE e i dati necessari per poterlo identificare, per poterlo contattare in caso di problemi;

–Le AVVERTENZE: indicazione della fascia di età alla quale il giocattolo è destinato e relativa motivazione, avvertenze d’uso per giocattoli che potrebbero presentare rischi particolari: giocattoli chimici, pattini, skateboard, biciclette e simili, giocattoli nautici, giocattoli funzionali che imitano apparecchiature elettroniche (es: ferro da stiro), giocattoli contenuti nei prodotti alimentari (es: sorprese), imitazioni di maschere e strumenti di protezione individuale, giocattoli da appendere a culle e simili, giocattoli contenenti fragranze.

2 Prestate attenzione alle indicazioni relative alla fascia di età dei bambini per la quale il giocattolo è stato progettato e si ritiene di conseguenza adatto.

–In assenza di un’età consigliata si presuppone che il giocattolo sia destinato a tutte le età (0-14 anni).

–SE ACQUISTATE GIOCATTOLI PER BAMBINI SOTTO I TRE ANNI, È BENE ASSICURARSI CHE NON CONTENGANO PICCOLE PARTI ACCESSIBILI: potrebbero causare rischio di ingestione. I giocattoli realizzati per bambini di età superiore a 3 anni, ma potenzialmente utilizzabili da bambini di età inferiore ai 3 anni, devono riportare la seguente avvertenza: “ATTENZIONE: NON ADATTO A BAMBINI DI ETÀ INFERIORE A 36 MESI” (oppure “3 anni”, oppure il pittogramma del viso del bambino con il segnale di divieto), seguita dalla motivazione di rischio, ad esempio: “CONTIENE PICCOLE PARTI CHE POTREBBERO ESSERE INGERITE O INALATE”.

3 I giocattoli e le loro PARTI SMONTABILI non devono presentare PUNTE O SPIGOLI APPUNTITI, BORDI TAGLIENTI O ANGOLI ECCESSIVAMENTE SPORGENTI.

4 I GIOCATTOLI MECCANICI devono essere costruiti in modo tale che gli INGRANAGGI NON SIANO ACCESSIBILI.

–FRECCE E ARCHI usati come giocattoli dai bambini devono avere adeguate protezioni che proteggano da possibili lacerazioni. Monitorate il gioco dei vostri bambini: un uso improprio può essere molto pericoloso.

–GIOCATTOLI CHE EMETTONO RUMORI E/O SUONI: per prevenire danni all’udito le norme stabiliscono specifici livelli di rumore producibili dai giocattoli che sono considerati sicuri. Se il suono di un giocattolo all’interno del negozio vi pare troppo elevato, non acquistatelo: i bambini sono molto più sensibili ai suoni rispetto agli adulti.

5 GIOCATTOLI che funzionano A BATTERIA destinati a bambini di età inferiore a 36 mesi devono avere un vano batteria inaccessibile, realizzato in modo tale da richiedere l’intervento di un adulto per essere aperto (ad esempio il vano è chiuso da una vite). Nei giocattoli destinati a bambini di età superiore ai 36 mesi il vano deve essere inaccessibile solo per le batterie a bottone, in tutti gli altri casi può essere facilmente rimovibile. In questo ultimo caso prestate particolare attenzione al possibile surriscaldamento delle pile (derivante da errato posizionamento delle stesse) poiché potrebbero provocare gravi scottature al bambino.

6 Qualsiasi parte del giocattolo deve essere RESISTENTE ALLO STRAPPO. Prestate particolare attenzione alle parti sporgenti rispetto alla sagoma del giocattolo, quali occhi, naso e bottoni.

7 Eliminare sempre i palloncini rotti o sgonfi!

–I PALLONCINI IN LATTICE GONFIABILI SONO PERICOLOSI SE ROTTI O SGONFI poiché potrebbero essere ingeriti. La confezione deve riportare la dicitura: “Attenzione: non adatto ai bambini di età inferiore agli otto anni”.

8 I giocattoli progettati perché il bambino vi giochi all’interno (ad esempio tende da indiano o casette) DEVONO ESSERE ARIEGGIATI e PRIVI DI CHIUSURE AUTOMATICHE che impediscano il passaggio dell’aria o la possibilità al bambino di uscirne facilmente.

9 CORDE, STRINGHE, REDINI E LACCI IN GENERE non devono avere lunghezza e spessore tali da risultare pericolose: potrebbero causare rischi di strangolamento.

10 Una volta aperti, gli imballaggi dei giocattoli DEVONO ESSERE ELIMINATI. I sacchetti di plastica possono risultare PERICOLOSI SE INFILATI IN TESTA (rischio di soffocamento) e gli altri elementi dell’imballaggio potrebbero essere ingeriti.
CONSIGLI

Guardate le istruzioni dei giochi con i vostri figli, appurate che abbiano ben compreso il funzionamento.
Verificate periodicamente che i giocattoli non presentino rotture.
Tenete separati i giocatoli destinati a bambini di fasce di età differenti.
In caso di dubbi sulla sicurezza di un prodotto acquistato, rivolgetevi al vostro punto vendita di fiducia.
Trovate il tempo per giocare con in vostri bambini, farà bene anche a voi.

Per maggiori informazioni: www.giocattolisicuri.com

“Vuoi saperne di più? Clicca due volte su qualsiasi parola e approfondisci con in nostro Dixio… la ricerca diventerà divertente e infinita!”

Il Progetto Susy Safe

Surveillance System on Foreign Body Injuries in Children

oggetti pericolosiIl soffocamento causato da corpi estranei è una delle cause principali di decesso nei bambini da 0 a 3 anni ed è comune anche in età maggiore, fino a 14 anni. Dati recenti stimano che ogni anno, nell’UE, i casi riguardanti bambini di età compresa tra 0 e 14 anni siano circa 50.000, l’1% dei quali mortale. Tra questi, circa 10.000 incidenti coinvolgono oggetti inorganici, in generale fabbricati industrialmente, soprattutto parti in plastica e metallo, monete e giocattoli. Dei 2.000 casi all’anno che coinvolgono giocattoli, quelli mortali sono circa 20.

Susy Safe è un registro di controllo per le lesioni causate da ingestione, aspirazione, inalazione o inserimento di corpi estranei (corrispondenti ai codici ICD9 da 930 a 939) nel quale vengono raccolti i dati provenienti da tutti i paesi, al fine di:

  • fornire un profilo di analisi del rischio per tutti i prodotti causanti il soffocamento, allo scopo di
    creare un sistema di controllo per i casi di soffocamento nei giovani consumatori, causati da prodotti mal progettati o mal confezionati;
  • aiutare a garantire la sicurezza dei consumatori, indicando quei prodotti il cui profilo di rischio è chiaramente incompatibile con un uso sicuro del prodotto stesso;
  • fornire alla Commissione Europea dati comparativi su rischi e benefici di ciascuno dei prodotti causa di soffocamento, per valutare i rischi accettabili in relazione all’impatto economico previsto per un eventuale ritiro dal mercato dei prodotti stessi;
  • fornire una valutazione di come le differenze socio-economiche tra i cittadini dell’UE possano influire sulla probabilità di rimanere vittime di soffocamento in seguito all’ingestione di corpi estranei, con lo scopo di implementare attività educative specifiche sui comportamenti sicuri e la sorveglianza attiva dei genitori riguardo ai prodotti specifici che causano il soffocamento;
  • coinvolgere, in quanto competenti, le Associazioni dei Consumatori e/o gli Organi Nazionali di Sorveglianza del Mercato nella raccolta dei dati e nell’educazione adeguata dei consumatori, consentendo di valutare in maniera precisa i profili di rischio per quei prodotti che in realtà provocano soffocamenti ma che, a causa del basso impatto in termini di sanità infantile (ingestioni di corpi estranei che si risolvono spontaneamente) vengono spesso trascurati e non sono riportati nei dati ufficiali di deospedalizzazione.

I casi verranno riportati in forma anonima da medici ospedalieri, otorinolaringoiatri, pneumologi, medici generici, utilizzando un modulo standard on line. Per partecipare al progetto, gli investigatori devono registrarsi su questo sito internet.
I principali documenti scientifici che utilizzano i dati complessivi verranno pubblicati con la formula “Susy Safe Working Group”, con un elenco di tutti i centri registrati, riconoscendo così il contributo di ciascun investigatore in qualità di coautore.

www.susysafe.org

5 cose sbagliate su dislessia, discalculia & co (Lorena Figini).

Lorena Figini ha da poco è iniziata una collaborazione con il sito Your Edu Action, per il quale ha scritto questo articolo che potete leggere in originale qui.

La grafica è a cura di You Edu Action.

Oggi parliamo di DSA, Disturbi Specifici dell’Apprendimento: argomento noto, forse, ma sul quale incombono errori anche gravi, da parte di insegnanti e genitori. Non voglio parlarvi di cosa fare, ma di cosa NON fare: cosa NON fare per non far sentire i vostri ragazzi, figli o studenti, incapaci; cosa NON fare per non abbassare la loro autostima, già così in bilico, sotto lo zero; cosa NON fare per farli crescere, nonostante le loro difficoltà, sereni e, soprattutto, NON diversi.

1. LA DISLESSIA È UNA DISABILITÀ O UNA MALATTIA. Niente di più sbagliato, ma c’è chi, genitori e insegnanti, ci crede ancora. Dislessia, discalculia, disgrafia e disortografia sono sistemi diversi di funzionamento a livello neurale; non sono disabilità in alcun modo: sono solo caratteristiche dell’individuo che lo pongono in difficoltà rispetto a un metodo di apprendimento tradizionale e standardizzato.

2. LIBRI SEMPLIFICATI, MAPPE E AUDIOLIBRI RISOLVONO TUTTO. Strumenti compensativi e misure dispensative sono utili, per non dire fondamentali, se utilizzati come si deve; devono diventare uno strumentario efficace che il ragazzo sa usare autonomamente. Servirli su un piatto d’argento per poi non spiegarne l’utilizzo è assolutamente inutile. Un esempio? Le mappe. Vanno bene se sono utili, ma l’importante è trasmettere un metodo di studio che permetta di crearle in completa autonomia.

3. USARE SCHEDE E MATERIALI CON FONT POCO LEGGIBILI. È risaputo, ormai, che i caratteri con troppe grazie sono quelli meno leggibili per chi è dislessico. Perché allora non avere qualche piccola accortezza nel proporre i materiali? Servono schede con caratteri semplici (Arial, ad esempio, o font appositamente creati), poche immagini ma esplicative, dimensioni maggiori del testo o interlinea maggiore. E anche nella scelta dei libri di testo, meglio scegliere quelli che non riempiono le pagine di scritte e immagini fino alla nausea.

4. DARE A TUTTA LA CLASSE LE STESSE VERIFICHE. Errore grosso anche se in classe non ci sono ragazzi con difficoltà riconosciute: ognuno di noi ha un diverso stile di apprendimento e necessita di verifiche che lo rispecchino. Proporre verifiche contenenti sempre la stessa tipologia di esercizi è sbagliato. I ragazzi con DSA, in particolare, hanno bisogno di privilegiare l’orale oppure, nello scritto, avere di fronte domande a risposta chiusa, completamenti, collegamenti, ecc. Personalizzare è quanto di più didatticamente corretto possiamo fare.

5. I DSA SONO TUTTI UGUALI. Infine, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento non sono tutti uguali: ci sono la dislessia, la discalculia, la disgrafia e la disortografia, ognuno con caratteristiche diverse. In più, anche tra ragazzi con lo stesso disturbo dell’apprendimento, ci possono essere enormi differenze. La regola che dovrebbe essere sempre valida, DSA o no, è: NON GENERALIZZARE.

http://pedagogiaedidattica.blogspot.it

Infezione delle vie urinarie, una patologia che colpisce l’8% dei bambini.

La Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) presenta un progetto per pediatri e famiglie per affrontare un problema che colpisce oltre l’8% dei bambini sotto agli 8 anni.
Febbre, inappetenza o vomito? Anche la mamma potrà escludere infezioni molto comuni ma poco conosciute: parola dei pediatri.

Prende vita il progetto educazionale promosso da FIMP per i pediatri e lo sviluppo di leaflet informativi, con lo scopo di intervenire rapidamente ed efficacemente sul problema delle infezioni delle vie urinarie. E con una novità diagnostica di facile utilizzo per le mamme.

leafletIVU_1Succede sempre così: di fronte a febbre, vomito o inappetenza del piccolo la preoccupazione delle mamme è riconoscere i sintomi indicativi di malattie più preoccupanti delle banali forme influenzali . E se non fosse così evidente? Potrebbe trattarsi di un’infezione delle vie urinarie, una patologia che colpisce l’8% dei bambini, con un’incidenza
superiore nei primi anni di vita.
Le infezioni delle vie urinarie sono la causa più frequente di infezioni batteriche nei bambini dopo quelle delle vie respiratorie. Con valori differenti nelle varie età pediatriche si arriva a seconda delle statistiche a una frequenza anche dell’8%. Tale frequenza si accompagna, specie nei bambini più piccoli, alla presenza di segni e sintomi aspecifici, quali disappetenza, vomito, irritabilità, febbre, che dai genitori spesso sono visti come segni iniziali di malattie di altri apparati, ritardando il contatto col proprio pediatra e quindi una diagnosi che con un semplice e rapido esame delle urine potrebbe essere posta. L’importanza di una rapida e corretta diagnosi, e del conseguente rapido inizio del trattamento antibiotico, è molto importante per ridurre al massimo le possibili complicazioni sulla funzionalità renale che possono portare fin dall’età pediatrica a malattie urinarie croniche.
Tutte le linee guida raccomandano ad esempio che per il lattante febbrile sia fatta una analisi delle urine attraverso degli stick, per valutate la presenza di leucociti e/o nitriti quali indicatori di infezione. La semplicità del metodo di lettura si scontra però con la difficoltà della raccolta delle urine, e le normali procedure consigliate ( sacchetti adesivi, mitto diretto )creano frequentemente problemi di raccolta ai genitori. Tale difficoltà genera un disuso dell’esam ambulatoriale e il ricorso alle strutture ospedaliere con un grande onere di tempo ed economico sia dei pazienti sia
degli operatori sanitari.
I pediatri quindi vedono con molto favore tutte modalità che semplifichino la raccolta e permettano di arrivare ad una rapida diagnosi di infezione, quale un nuovo stick adesivo che, posizionato semplicemente sul pannolino, consente alle mamme di identificare segni indicativi di infezioni urinarie (attraverso il rilevamento dei valori di nitriti e/o leucociti nelle urine dei bambini) e in caso di esito positivo ricorrere precocemente al parere del proprio pediatra.

TENA_Carton_Box_120x220x25 KopieTENA, leader per competenze ed esperienze nell’ambito dell’incontinenza, raccoglie l’esigenza di lanciare un innovativo dispositivo medico per il riconoscimento rapido di infezioni urinarie (TENA U-Test), e supporta in modo non condizionante il progetto educativo “Mamma sto male, hai controllato la mia pipì?”
Tale progetto promosso da FIMP è a disposizione di tutti i pediatri della FIMP (circa 6000) che potranno ora usufruire sia di corsi formativi riconosciuti dal ministero (ECM) sia di quelli a distanza (FAD).

leafletIVU_2Il Progetto prevede, inoltre, un supporto per le famiglie che, grazie alla diffusione di un leaflet informativo predisposto dai pediatri, potranno conoscere in modo più approfondito le infezioni delle vie urinarie e approfondire eventuali sintomi sospetti nei propri figli sotto la guida costante del proprio pediatra di famiglia. Il materiale educativo contenuto nel leaflet sarà inoltre scaricabile da www.fimp.pro per avere sempre sottomano le 5 regole suggerite da FIMP
“Le infezioni urinarie sono facilmente curabili – spiega Giampietro Chiamenti, pediatra e Presidente Nazionale FIMP – ma, se trascurate, possono condurre a complicanze che si manifesteranno da adulti, quali ipertensione, gestosi e, nei casi più gravi, a insufficienze renali importanti, segnando l’intera vita di un paziente. Per una sintomatologia spesso silenziosa e complessa come quella legata a tali patologie, la diagnosi precoce si è dimostrata fondamentale.
Crediamo sia importante educare bene la famiglia a sospettare e riconoscere sintomi comuni in modo tempestivo invitando la mamma a tener monitorati alcuni “campanelli di allarme” (es. febbre, inappetenza, cattivo odore della pipì) consultandosi con il pediatra che potrebbe suggerire di fare una prima indagine sulle urine. Ecco perché abbiamo ideato anche un leaflet informativo che spiega la problematica e i 5 sintomi da monitorare.”
“Vogliamo lanciare quest’iniziativa anche a livello nazionale – precisa Chiamenti – che prosegue quella pilota dello scorso anno effettuata su 3 aree test, coinvolgendo oltre ai pediatri, le famiglie e i farmacisti”.

ALCUNE REGOLE PER UN BIMBO IPERATTIVO

“GIU’ LE MANI DAI BAMBINI” SUGGERISCE… (ALCUNE REGOLE PER UN BIMBO IPERATTIVO)

[tratto da www.giulemanidaibambini.org  che spiega che “La lista che segue è frutto dell’armonizzazione a cura del nostro staff di due noti riferimenti per specialisti, “La sindrome di Pierino: il controllo dell’iperattività”, del dott. Daniele Fedeli, docente di Psicopatologia Clinica dell’Università di Udine, “How to operate an ADHD clinic or subspecialty practice”, di M. Gordon – GSI Publications e “Che cosa ti avevo detto?”, di D. Donovan e D. McIntyre. Si tratta di alcune facili regole pratiche per la gestione in classe ed a casa di bimbi irrequieti e disattenti …”]

 

1) AIUTAMI A FOCALIZZARE L’ATTENZIONE SU DI TE
Considera il mio “modo” di entrare in contatto con l’ambiente: ho bisogno di movimento, gesti e mani alzate!

2) …E ASSICURATI CHE TI STIA ASCOLTANDO
Quando svolgo un attività che mi richiede molta concentrazione,come giocare con i videogiochi, mi capita di rispondere in modo automatico e impulsivo. Quanti disguidi nascono! Basta un piccolo gesto per richiamare la mia attenzione!

3) ATTENZIONE AI SIGNIFICATI CONVENZIONALI
Io recepisco quello che dici alle lettera e in modo logico. Espressioni come: “Non ti sai comportare come si deve?”, “Le vuoi prendere?”, “Che cosa ti ho appena detto?”,“La smetti?” Non ottengono il risultato da te sperato perché io le interpreto con un’altra modalità. Molti di questi sono ordini di fare esattamente il contrario di ciò che tu avevi in mente, come: “Dillo solo un’altra volta!” “Avanti. Tocca quel giocattolo e vedi che ti succede!”

4) SEI TROPPO COMPLICATO…
I messaggi vanno formulati in maniera molto diretta, senza “giri di parole”… sennò mi confondo!

5) DAMMI PRIMA QUELLO DI CUI HO BISOGNO
Può capitare che non mi stiate dando il necessario. Non darmi quello di cui TU hai bisogno ma vieni incontro ai MIEI bisogni fisici ed emotivi. Ho bisogno di appoggio, regole e limiti fin dalla prima età, e con continuità nel tempo.

6) PERCHE TUTTE QUESTE REGOLE?
Le regole vanno commisurate alle mie possibilità: poche regole e molto chiare. Mi devi descrivere – di volta in volta e con molta linearità – il comportamento o il risultato che ti aspetti da me.

7) PERCHE’ QUANDO MI PARLI NON TI FAI SENTIRE?
Devi mostrarmi come un compito va eseguito, dandomi delle istruzioni con voce chiara. Per me è utile ripetere le Tue istruzioni, esprimendole ad alta voce, finché non avrò interiorizzato la sequenza.

8 ) MI DICI TROPPE COSE TUTTE ASSIEME
I messaggi vanno trasmessi uno per volta, altrimenti io li “cumulo” e poi me li dimentico! Se tu “segmenti” i comportamenti in una sequenza operativa (”…ora prendo il libro, cerco la pagina, la leggo tutta senza interruzioni…”), per me è tutto più facile. Se poi i compiti sono troppo lunghi o complessi… spezzettali in parti più piccole! Così mantengo la capacità d’attenzione ed il controllo sull’obiettivo da raggiungere.

9) NON L’HO DIMENTICATO… È SOLO CHE NON L’HO SENTITO LA PRIMA VOLTA!
Dammi le indicazioni un passo alla volta e chiedimi che cosa penso che tu abbia detto, e se non capisco subito… ripetimelo usando parole diverse!

10) SONO NEI GUAI, NON RIESCO A FARLO
Offrimi delle alternative alla soluzione dei problemi: aiutami ad usare una strada secondaria se la principale è bloccata.

11) …E FAMMI RITORNARE SULLE COSE CHE ABBANDONO SUBITO
A volte abbandono giochi o attività dopo pochi minuti, forse per paura di non riuscire a superare piccole difficoltà. Affrontiamo insieme quello che io abbandono facilmente.

12) HO QUASI FINITO ADESSO?
Dammi dei periodi di lavoro brevi, con obiettivi a breve termine

13) HO BISOGNO DI SAPERE COSA VIENE DOPO
Dammi un ambiente in cui ci sia una routine costante, ed avvertimi se ci saranno dei cambiamenti. Ricordati che i cambiamenti avvengono nel quotidiano, all’interno di esperienze significative e strutturate. Non servono “rivoluzioni”: è proprio dentro la routine che puoi incidere per farmi modificare il mio comportamento.

14) SE NON TI DO RETTA…E’ PERCHE’ MI ANNOIO!
Io mi stanco facilmente, mi annoio, e peggioro nettamente in situazioni poco motivanti. Stabilire una “routine”, gestendo senza sorprese le varie fasi della giornata non significa “appiattire i contenuti” della giornata stessa!

15) MI REGALI UN PAUSA?
In effetti, nessuno meglio di me sa come mi sento io. Quindi, se in extremis ti chiedo un momento di pausa per guardarmi attorno e mettermi in comunicazione con l’ambiente che mi circonda, stabiliamolo assieme, ma non me lo negare…

16) SE HO FATTO BENE DIMMELO SUBITO
Dammi un feedback “nutriente” ed immediato su quello che sto facendo e ricordami (e ricordati!) delle mie qualità, specialmente nelle giornate negative.

17) SE FACCIO BENE DAMMI UN PREMIO!
Se mi gratifichi o mi fai pagare un simbolico “prezzo” per i miei comportamenti, mi incentivi ad autocorreggermi! (gli adulti lo chiamano “autocontrollo cognitivo”)

18) È SEMPRE TUTTO SBAGLIATO?
Premiami anche solo per un successo parziale, non solo per la perfezione.

19) FAMMI CAPIRE CHI HA SBAGLIATO
Molto spesso usi espressioni impersonali che non mi permettono di capire che ho sbagliato, come ad esempio: “E’ stata una settimana orrenda!” “E’ stata una festa di compleanno da scordare!” Indicami dove ho sbagliato, e chi ha sbagliato! Generalizzando i fatti, innesti un meccanismo di de-responsabilizzazione che non mi porta alcun frutto. Ho bisogno di indicazioni precise!

20) NON MI PUNIRE DURAMENTE SE FACCIO QUALCOSA CHE NON VA BENE PER TE…
Riconsidera il Tuo modo di punirmi. Non mi devi ferire ma riportarmi al comportamento corretto il più rapidamente possibile. Quando disturbo o mi oppongo, le punizioni dure servono a poco: così avviamo un’escalation senza fine!

21) …E SE SEI TROPPO ARRABBIATO, NON MI SGRIDARE!
La rabbia non mi rende più obbediente! Quando sei molto arrabbiato io concentro la mia attenzione sui Tuoi sentimenti negativi e vivo un ulteriore esperienza negativa. Difficilmente mi servirà a qualcosa quella sgridata.

22) DISORDINE CHIAMA DISORDINE
Certo che se l’ambiente nel quale mi fai lavorare mi distrae di per se… possiamo eliminare tutte queste distrazioni? Per esempio, quando si fanno i compiti, fammi tenere sul tavolo solo ciò che è realmente indispensabile…

23) CONDIVIDI CON ME
Stiamo insieme a parlare, ad ascoltarmi, a giocare e a disegnare è fondamentale per poter sviluppare la mia attenzione vigile insieme a tanti benefici per la mia crescita.

24) NON SAPEVO CHE NON ERO AL MIO POSTO
Ricordami di “ascoltarmi”, di ascoltare le mie emozioni, e ricordami di pensare prima di agire. Se imparo a “mettere del tempo” tra il pensiero e l’azione, farò meno disastri!

25) PREVENIRE E MEGLIO CHE REPRIMERE
Prima di portarmi in ambienti in cui posso scatenarmi con comportamenti troppo agitati (come le feste di compleanno!), ricordami come mi dovrò comportare… ed intervieni subito quando capisci che sto per perdere il controllo di me!

26) MI INSEGNI A FARMI VOLER BENE?
Dimmi cosa è adeguato per Voi adulti, come posso chiedere qualche cosa senza essere aggressivo, come posso risolvere un conflitto, come posso conversare senza interrompere sempre l’interlocutore. Se facciamo delle simulazioni io e Te, per me sarà tutto più facile quando mi capiterà veramente!

27) SE ASCOLTO VERRO’ ASCOLTATO
M’insegni anche a coltivare la capacità di ascoltare gli altri? Aiutami a capire che se non ascolto difficilmente verrò ascoltato quando ne avrò bisogno. Così imparerò a comprendere i sentimenti altrui, e quindi di riflesso – i miei.

28) OGNI AZIONE HA UNA REAZIONE
Se mi fai comprendere bene che ogni mia azione avrà poi una reazione, da parte dell’ambiente e delle persone, mi aiuterai molto. Fammi esempi a me vicini e facilmente comprensibili, anche mediante il gioco degli opposti (“se maltratto il gatto, il gatto mi graffia”, “se aiuto il cane il cane mi vorrà bene” etc.)

29) MA IO NON VALGO NULLA?
Spesso ho un basso senso di autostima e mi sento “un fallimento”: mi puoi valorizzare nei miei aspetti positivi, sostenendomi ed incoraggiandomi? Fammi percepire la Tua fiducia in me, per favore…

30) IO “SONO COME MI COMPORTO”?
Il non sono “sbagliato”. E’ pericoloso e dannoso confondermi con i miei comportamenti, perché così divento “effetto totale” di essi e non posso più intervenire per modificarli/risolverli. Ciò che c’è di “sbagliato” non sono io, ma il modo in cui mi comporto: fammi comprendere che io posso sempre decidere di far qualcosa di concreto per impegnarmi a migliorare

31) NON ARRENDERTI!
Se fin dalle prime volte non ottieni i risultati sperati non arrenderti. Si tratta di approcci semplici ma che non per questo non richiedono sforzo e tempi non brevi. Ogni mio comportamento può essere “trasformato” ma è necessaria perseveranza, pazienza, coerenza e continuità nel tempo.

ADHD, ATTENTI AGLI PSICOFARMACI

ADHD, ATTENTE AGLI PSICOFARMACI

[Di Giovanna Canzi – fonte: Letteradonna.it]

Il disturbo da deficit di attenzione è ancora un mistero. Per questo troppo spesso si abusa delle medicine.

In Italia oltre 57 mila bambini sono in cura con psicofarmaci. E ben presto una nuova molecola verrà immessa sul mercato per curare ragazzini “un po’ troppo vivaci”. Mentre, infatti, la sperimentazione della guanfacina è in fase conclusiva – entrerà in commercio fra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 – è già iniziato un battage mediatico per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Adhd. Meglio nota come iperattività, è una patologia che provoca deficit di attenzione e problemi di autocontrollo. Ad affermarlo Luca Poma, portavoce del comitato indipendente di farmacovigilanza pediatrica Giù le mani dai bambini, che dal 2004 si preoccupa di tenere a bada l’eccessiva disinvoltura con cui vengono prescritti psicofarmaci a minori. Primo a intercettare la sperimentazione della guanfacina, iniziata in gran segreto alla Fondazione Stella Maris di Pisa, il comitato punta il dito sul conseguente bombardamento di articoli di giornale, servizi televisivi e siti web che stanno preparando il terreno per far sì che il nuovo farmaco venga accolto “con entusiasmo” da genitori, insegnanti e pediatri.
UNA MALATTIA ANCORA MISTERIOSA
La storia dell’Adhd, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, comincia da lontano. Già nel 1845 in un trattato del medico Heinrich Hoffmann si trovano tracce di una malattia dell’infanzia caratterizzata da distrazione e vivacità eccessiva, anche se bisogna aspettare la fine degli Anni ’60 perché il disturbo prenda il suo attuale nome, Attention Deficit/Hyperactive Disorder, e venga considerato una pericolosa patologia in grado di rendere la vita difficile ai genitori di tanti piccoli Gianburrasca: «Il vero problema relativo a questa malattia», sottolinea  Rita Dalla Rosa, autrice del recente volume La fabbrica delle malattie. Bambini e psicofarmaci: ecco come le multinazionali cerano di ammalare i nostri figli (Terre di Mezzo ed.), «è che non è ben chiaro come scoprirla, visto che non ci sono esami che la possono misurare. L’unica via da percorrere è andare per ipotesi e per accertarne la presenza si ricorre ai manuali di psicodiagnosi che riportano un elenco di sintomi che devono essere presenti per parlare di Adhd».
Non tutti i bambini vivaci soffrono di disturbo da deficit di iperattività.
Non tutti i bambini vivaci soffrono di disturbo da deficit di attenzione/iperattività.
L’ITALIA E LA VIA DELLA PRUDENZA
Se negli Stati Uniti l’Adhd si è trasformata in una sorta di epidemia da curare con farmaci ad hoc (qui i casi hanno registrato un’esplosione: erano 150 mila nel 1985, mentre oggi sono 11 milioni), in Italia per fortuna il panorama è più rassicurante. Il nostro Paese è, infatti, l’unico al mondo ad avere istituito un registro nazionale Adhd, che tiene nota del numero dei piccoli pazienti presi in cura e della durata del trattamento: «Un passo importante», sottolinea Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri e del registro lombardo, «che permette di avere il quadro della situazione e proporre delle linee guida, alle quali attenersi per affrontare una patologia che deve essere affrontata con molteplici approcci. In primo luogo con un percorso di tipo psicologico (dinamico, famigliare, comportamentale) e solo nei casi più gravi con il supporto farmacologico, sempre accompagnato da una terapia psicoterapica di sostegno».
NON SOLO ADHD
Ma l’Adhd non è l’unica malattia per la quale i piccoli vengono sottoposti a questo tipo di cure farmacologiche. In Italia oltre 57 mila bambini assumono psicofarmaci, in particolare 24.640 con antidepressivi e 7.100 con antipsicotici (dati del Rapporto Arno-bambini 2011, consorzio interuniversitario Cineca), mentre dai risultati di un’indagine condotta da Telefono Azzurro ed Eurispes emerge che tra gli studenti delle scuole superiori il 18,6% dichiara di assumere tranquillanti e il 14,7% di far uso regolare di antidepressivi. Numeri che preoccupano e che rivelano, come spiega il professor Bonati, «che ricorrere al farmaco è spesso la via più semplice e meno costosa da prendere, mentre l’idea di affrontare un percorso alternativo può spaventare perché lungo e faticoso. Ma sicuramente fondamentale nella prospettiva di una vera guarigione».
In Italia oltre 57 mila bambini sono in cura con psicofarmaci. E ben presto una nuova molecola verrà immessa sul mercato per curare ragazzini “un po’ troppo vivaci”. Mentre, infatti, la sperimentazione della guanfacina è in fase conclusiva – entrerà in commercio fra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 – è già iniziato un battage mediatico per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Adhd. Meglio nota come iperattività, è una patologia che provoca deficit di attenzione e problemi di autocontrollo. Ad affermarlo Luca Poma, portavoce del comitato indipendente di farmacovigilanza pediatrica Giù le mani dai bambini, che dal 2004 si preoccupa di tenere a bada l’eccessiva disinvoltura con cui vengono prescritti psicofarmaci a minori. Primo a intercettare la sperimentazione della guanfacina, iniziata in gran segreto alla Fondazione Stella Maris di Pisa, il comitato punta il dito sul conseguente bombardamento di articoli di giornale, servizi televisivi e siti web che stanno preparando il terreno per far sì che il nuovo farmaco venga accolto “con entusiasmo” da genitori, insegnanti e pediatri.
UNA MALATTIA ANCORA MISTERIOSA
La storia dell’Adhd, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, comincia da lontano. Già nel 1845 in un trattato del medico Heinrich Hoffmann si trovano tracce di una malattia dell’infanzia caratterizzata da distrazione e vivacità eccessiva, anche se bisogna aspettare la fine degli Anni ’60 perché il disturbo prenda il suo attuale nome, Attention Deficit/Hyperactive Disorder, e venga considerato una pericolosa patologia in grado di rendere la vita difficile ai genitori di tanti piccoli Gianburrasca: «Il vero problema relativo a questa malattia», sottolinea  Rita Dalla Rosa, autrice del recente volume La fabbrica delle malattie. Bambini e psicofarmaci: ecco come le multinazionali cerano di ammalare i nostri figli (Terre di Mezzo ed.), «è che non è ben chiaro come scoprirla, visto che non ci sono esami che la possono misurare. L’unica via da percorrere è andare per ipotesi e per accertarne la presenza si ricorre ai manuali di psicodiagnosi che riportano un elenco di sintomi che devono essere presenti per parlare di Adhd».
L’ITALIA E LA VIA DELLA PRUDENZA
Se negli Stati Uniti l’Adhd si è trasformata in una sorta di epidemia da curare con farmaci ad hoc (qui i casi hanno registrato un’esplosione: erano 150 mila nel 1985, mentre oggi sono 11 milioni), in Italia per fortuna il panorama è più rassicurante. Il nostro Paese è, infatti, l’unico al mondo ad avere istituito un registro nazionale Adhd, che tiene nota del numero dei piccoli pazienti presi in cura e della durata del trattamento: «Un passo importante», sottolinea Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri e del registro lombardo, «che permette di avere il quadro della situazione e proporre delle linee guida, alle quali attenersi per affrontare una patologia che deve essere affrontata con molteplici approcci. In primo luogo con un percorso di tipo psicologico (dinamico, famigliare, comportamentale) e solo nei casi più gravi con il supporto farmacologico, sempre accompagnato da una terapia psicoterapica di sostegno».
NON SOLO ADHD
Ma l’Adhd non è l’unica malattia per la quale i piccoli vengono sottoposti a questo tipo di cure farmacologiche. In Italia oltre 57 mila bambini assumono psicofarmaci, in particolare 24.640 con antidepressivi e 7.100 con antipsicotici (dati del Rapporto Arno-bambini 2011, consorzio interuniversitario Cineca), mentre dai risultati di un’indagine condotta da Telefono Azzurro ed Eurispes emerge che tra gli studenti delle scuole superiori il 18,6% dichiara di assumere tranquillanti e il 14,7% di far uso regolare di antidepressivi. Numeri che preoccupano e che rivelano, come spiega il professor Bonati, «che ricorrere al farmaco è spesso la via più semplice e meno costosa da prendere, mentre l’idea di affrontare un percorso alternativo può spaventare perché lungo e faticoso. Ma sicuramente fondamentale nella prospettiva di una vera guarigione».

Di Giovanna Canzi – fonte: Letteradonna.it

Massaggio neonatale: piccoli gesti di benessere per il bambino

Per il neonato il mondo esterno non è sempre ospitale e confortevole come il grembo che lo ha ospitato per nove mesi. Dopo il parto, il piccolo piano piano inizia a scoprire il mondo attraverso i suoi sensi e talvolta può innervosirsi quando entra in contatto con una quotidianità che ha ritmi e abitudini che […]

Le malattie esantematiche

Cosa sono?
Le malattie esantematiche sono malattie infettive. Si manifestano con la comparsa di un esantema, cioè un’eruzione cutanea che è variabile: puntiformi o papulose che si presentano prima in sedi specifiche e poi si diffondono su tutto il corpo. La malattia è infettiva e spesso smette di essrelo proprio con la comparda comparsa dell’eruzione cutanea.

Quali sono?

  • il morbillo

  • la parotite

  • la pertosse

  • la rosolia

  • la scarlattina

  • la quarta malattia (Scarlattina abortiva)

  • la quinta malattia (Megaloeritema)

  • la sesta malattia (Esantema critico

  • la Malattia mano-piede-bocca

  • la Mononucleosi infettiva

VARICELLA e HERPES ZOSTER

VARICELLA (ZOSTER)

La causa di questa malattia infettiva è l’herpes virus varicella zoster (VZV).

Questo virus agisce in due modi:

• il primo tramite l’infezione primaria (la varicella),

• il secondo con la riattivazione del VZV (l’herpes zoster – comunemente chiamato fuoco di Sant’Antonio).

La varicella è molto contagiosa e colpisce prevalentemente in età pediatrica. Trattandosi di un Herpesvirus umano, la varicella può trasmettersi soltanto da uomo a uomo e si manifesta in epidemie periodiche ogni quattro anni circa.

Ha un’incubazione che va dai 7 ai 21 giorni e si presenta con lesioni cutanee (che partono da macchioline e diventano vescichette)e solitamente sono accompagnate da febbre. Le vesciche, partendo dal viso e dal tronco, si diffondono su tutto il corpo provocando un notevole prurito; sono piene di liquido altamente contagioso e possono essere presenti su tutto il corpo: sul cuoio capelluto, sulle mucose e sui genitali.

L’ultima fase dell’eruzione cutanea vede la trasformazione delle vescicole in croste che perdono la carica infettiva e cadono dopo una o due settimane.

La varicella si diffonde per via aerea tramite le secrezioni di naso e gola (tramite uno starnuto o un colpo di tosse) oppure tramite il contatto diretto con le lesioni cutanee provocate dalla malattia. La contagiosità inizia circa 24-48 ore prima della comparsa dell’esantema e può permanere fino al momento in cui non compaiono le tipiche croste.

I problemi maggiori si hanno negli adolescenti che, se contagiati, presentano eruzioni molto intense.

Tra le complicanze che si possono presentare ci sono:
• Problemi respiratori, anche la polmonite (più frequente negli adulti, raramente nei bambini);
• sovrapposizioni batteriche a causa di Staphylococcus aureus o Streptococcus pyogenes;
• infezioni del sistema nervoso.
• Nella donna in gravidanza può causare problemi (dopo la rosolia è la malattia che più frequentemente può dare problemi al bambino).

L’herpes zoster è dovuto alla riattivazione endogena dell’herpes virus che rimane latente nell’organismo dopo l’infezione primaria di varicella. In pratica, il virus della varicella non viene eliminato dall’organismo ma rimane generalmente latente per tutto il corso della vita nelle cellule dei gangli delle radici nervose spinali; nel 10-20% dei soggetti il virus si risveglia, generalmente dopo i cinquanta anni di età e provoca l’herpes zoster.
Quando il virus si riattiva in soggetti sani, con una risposta immunitaria sufficientemente buona, l’attacco viene neutralizzato e i sintomi sono generalmente blandi e senza conseguenze. In soggetti con difese immunitarie scarse il virus è in grado di moltiplicarsi, diffondersi e dare luogo alla tipica sintomatologia.
I soggetti che non si sono mai ammalati di varicella sono immuni dall’herpes zoster.
Nell’herpes zoster l’eruzione cutanea è associata al dolore che in alcuni casi può essere molto intenso e può succedere che una volta scomparse le croste il dolore non cessi, si può avere è la cosiddetta nevralgia post-erpetica: il dolore può perdurare per lunghi periodi di tempo, mesi o addirittura anni.
Altre complicanze da herpes zoster possono essere:
• il prurito cronico nella zona interessata;
• la sovrinfezione batterica delle vescicole;
• problemi a livello di sistema nervoso centrale (sono rare).

Contagio
Il fuoco di Sant’Antonio compare quando un fattore scatenante sconosciuto fa attivare il virus nascosto all’interno dell’organismo. Diversamente dalla varicella  difficilmente si può “passare” a qualcun altro. Una persona affetta dal fuoco di Sant’Antonio potrebbe però contagiare un’altra persona, per esempio un bambino che non ha mai avuto la varicella e che non sia stato vaccinato (in Italia non è obbligatorio): quest’ultimo sarà, però, colpito dalla varicella e non dal fuoco di Sant’Antonio. Affinché avvenga il contagio è necessario venire a contatto direttamente con la persona ammalata.

La congiuntivite nei bambini.

L’ “occhio rosso”, spesso identificato con la congiuntivite, è un campanello d’allarme: un’infiammazione di origine infettiva o traumatica.

Come si manifesta?

Da considerare nella valutazione della congiuntivite una serie di fattori:
– la monolateralità (se è colpito un solo occhio) o la bilateralità (se sono colpiti entrambi);
– la presenza di lacrimazione;
– la presenza di fotofobia (fastidio alla luce);
– la presenza di secrezione;
– la presenza di dolore;
– la presenza di chemosi congiuntivale (gonfiore della congiuntiva, cioè della membrana che riveste l’occhio, dovuto alla raccolta di liquido infiammatorio).

A volte piccole lesioni o abrasioni della congiuntiva si manifestano con rossore. È molto indicativa la sua monolateralità; raramente è associata secrezione. Nella maggior parte dei casi è sempre presente fastidio alla luce (fotofobia), soprattutto se la lesione si estende alla cornea. Fondamentale è la consulenza oculistica che deve determinare la profondità della lesione stessa: lesioni superficiali spesso si rimarginano con la semplice chiusura della palpebra mentre quelle più profonde meritano una maggiore attenzione (vanno valutate da parte di un oculista e trattate con la terapia appropriata).

Le congiuntiviti purulente sono quasi sempre bilaterali:

– l’occhio è fortemente iperemico, con i vasi sanguigni della congiuntiva che sono più evidenti;

– la congiuntiva è gonfia;

– il bambino riferisce di vedere meno o si strofina l’occhio come se volesse pulirlo;

– il deficit visivo è legato alla secrezione densa;

– trattandosi di forme infettive, è prudente evitare il contatto con altri bambini;

– raramente si può associare febbre e raramente lasciano lesioni sull’occhio.

La terapia iniziale può essere prescritta dal Pediatra, anche se è sempre meglio consultare l’Oculista.

Le congiuntiviti virali rappresentano le forme più pericolose e contagiose e generalmente sono seguite da stati influenzali. Da una sintomatologia molto blanda costituita da un leggero fastidio, in breve tempo si passa ad una sintomatologia molto dolorosa:
– gonfiore delle palpebre e della congiuntiva;
– lacrimazione densa molto abbondante e forte fastidio alla luce;
– un gonfiore vicino all’orecchio (linfonodo satellite).

Successivamente, si associa alterazione della visione causata dalla infiltrazione del virus negli strati della cornea. Anche a distanza di anni l’oculista che visita un paziente colpito da congiuntivite virale può ritrovare gli esiti dell’infezione con la presenza di piccole opacità corneali: sono le forme più contagiose di congiuntiviti e generalmente il contagio avviene nel periodo di incubazione privo di una sintomatologia chiara. È bene ricorrere subito ad un oculista che potrà prescrivere la terapia più idonea ed è prudente isolare il paziente per evitare ulteriori contagi.

Le congiuntiviti allergiche o papillari rappresentano le forme più “tranquille” dal punto di vista medico ma sono sicuramente le più fastidiose per la sintomatologia e le più difficili da trattare. La reazione da contatto della congiuntiva, con l’agente che determina l’allergia, ne altera la struttura e l’aspetto della congiuntiva stessa. Si formano delle papille (microscopiche rilevatezze della congiuntiva) che irritano la congiuntiva e la cornea tramite liberazione di istamina. Il paziente ha una continua sensazione di corpo estraneo con necessità di strofinarsi per il prurito. Tale movimento causa fastidio alla luce (fotofobia) e spesso si possono sovrapporre congiuntiviti purulente. Nelle congiuntiviti allergiche la terapia deve essere protratta per lungo tempo ed è costituita da colliri antistaminici. L’uso di colliri cortisonici è da limitare nel tempo (5-6 giorni al massimo) e solo dopo consulto con l’Oculista. Il fatto di essere scatenate da intolleranze da contatto non significa che il paziente affetto debba essere un soggetto allergico, soprattutto se l’età del paziente è inferiore a 3 anni. Non lasciano lesioni sull’occhio e non sono contagiose.

A cosa fare attenzione?

L’occhio rosso può essere anche espressione di patologie più gravi. È sempre consigliato quindi, in presenza di questi sintomi, ricorrere al parere di un medico.

www.ospedalebambinogesu.it [Dott. Antonino Romanzo]

Cefalea nei bambini: prima causa di assenza a scuola.

“Ha un profondo impatto sui risultati scolastici, secondo alcune ricerche è la prima causa di assenza da scuola, con circa 7-8 giorni persi all’anno e interferisce anche con le attività quotidiane, eppure la cefalea nei bambini è poco considerata, anche dai genitori: il 36% di essi infatti non sa che il figlio ne soffre”, afferma Pasquale Parisi, Responsabile del Centro Cefalee Pediatriche della Cattedra di Pediatria di “Sapienza” – Università di Roma, presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma.

La cefalea è un disturbo comune in età pediatrica ed è causa anche di frequenti accessi al Pronto Soccorso. Circa il 49% della popolazione pediatrica manifesta almeno un episodio di cefalea, il 4,2% ne soffre per più di 10 giorni al mese. La fascia più colpita è quella dai 12 anni in su. “Il disturbo è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi 30 anni anche a causa del netto cambiamento nello stile di vita dei nostri ragazzi”, aggiunge il professor Parisi. “Oltre alla predisposizione genetica disturbi del sonno, scarsità di ore destinate al riposo, ma anche l’uso eccessivo di videogiochi, tv, tablet e smartphone possono essere in parte responsabili dell’aumento dei casi. A questi si aggiungono fattori emotivi, ansia e stress. L’emicrania vede una netta prevalenza genetica, mentre nella cefalea ‘tensiva’ l’aspetto psico-emotivo è dominante”.

“Tutto ciò rende urgente implementare la ricerca di settore e di conseguenza rivedere le Linee guida per la diagnosi e la terapia della cefalea in età pediatrica, secondo criteri di Evidence Based Medicine”, prosegue ancora Parisi. A confermare questa necessità è uno studio di prossima pubblicazione presentato per la prima volta al Congresso Italiano di Pediatria che ha coinvolto 11 centri italiani afferenti alla Società Italiana di Neurologia Pediatrica. Nello studio è stato utilizzato AGREE II, uno strumento epidemiologico standardizzato che valuta l’adeguatezza delle Linee guida, pertanto “per la prima volta possiamo sostenere su base scientifica la necessità di questa revisione. Occorre inoltre rafforzare la ricerca pubblica e indipendente pervalutare l’efficacia dei farmaci nella popolazione pediatrica, ancora poco studiata”.

“Prima di fare una diagnosi chiediamo al bambino o ai genitori di compilare un ‘diario del mal di testa’ per circa 3 mesi. Spesso infatti la cefalea si manifesta in maniera occasionale, in corrispondenza di una infezione delle vie aeree superiori o di un episodio banale febbrile. Se si tratta di eventi episodici utilizziamo una terapia di ‘attacco’, ma se la cefalea si presenta per almeno 4-5 giorni al mese con compromissione della vita quotidiana usiamo un approccio preventivo, una profilassi, per evitare che il disturbo “cronicizzi” prosegue Parisi. È opportuno rivolgersi a un centro specialistico quando c’è familiarità, specialmente di forme aggressive e cronicizzate nei genitori, quando il disturbo è frequente ed impatta negativamente sugli aspetti scolastici e “ludici” del bambino-adolescente”.

La cefalea può essere ‘primaria’ se dalle indagini strumentali ad hoc non si sia individuata una causa organica del dolore, o secondaria se conseguente a cause come malattie, infezioni, traumi. Queste ultime ammontano a circa il 40-50% dei casi, ma quelle veramente pericolose sono intorno all’1-3% e vanno sottoposte al vaglio del centri specialistici. Esiste infine, anche se molto rara, la cefalea “insidiosa”, apparentemente benigna ma che nasconde patologie che possono minacciare la vita del piccolo paziente. “È molto difficile riconoscerla”, spiega Raffaele Falsaperla, Direttore UOC di Pediatria e PS Pediatrico Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Vittorio Emanuele Catania, “perché è apparentemente innocua, in quanto si manifesta in bambini affetti da cefalea cronica che non presentano segni neurologici tali da destare allarme e che normalmente vengono classificati in Pronto Soccorso come codici bianchi o verdi. L’esame del fondo oculare può essere uno strumento utile per scovarla”.

Cefalea: i consigli della SIP per genitori e adolescenti

Evitare quanto più possibile i fattori scatenanti la cefalea, quali dormire poco, avere stili di vita scorretti (fumo, alcol), essere eccessivamente esposti agli stimoli visivi (computer, smartphone ecc.).
Prestare attenzione ai segnali di esordio precoce atipico, come torcicollo, dolori addominali. Se intercettati precocemente si può fare la diagnosi di cefalea e quindi migliorare la qualità della vita del bambino.
In caso di attacco acuto somministrare tempestivamente la terapia prescritta dal pediatra perché se si aspetta troppo il farmaco rischia di essere inefficace.
Quando ci sono segnali come cambio di umore o se il bambino cammina male, vede male e parla male rivolgersi a un centro specialistico.
Pensare a una profilassi quando gli episodi sono numerosi e inficiano qualità vita del paziente e della famiglia.

Dal sito: www.sip.it  (dottor Raffaele Falsaperla, Direttore del Pronto Soccorso Pediatrico e della Unità di Pediatria del Policlinico Vittorio Emanuele di Catania

Adenovirus e bambini

Gli ADENOVIRUS colpiscono più spesso i bambini e possono causare piccole epidemie negli asili e nelle scuole. Ecco come affrontarli.

Questi virus colpiscono più di frequente i neonati e i bambini piccoli, causando casi multipli di infezioni respiratorie e diarrea negli asili e nelle scuole.

Se ne conoscono una cinquantina di tipi che sono infettivi per l’uomo. Oltre alle vie respiratorie e all’intestino possono infettare gli occhi e le vie urinarie.

In genere le infezioni da adenovirus sono più frequenti verso la fine dell’inverno, in primavera e agli inizi dell’estate. Tuttavia, in alcuni casi si verificano anche in altri periodi dell’anno.

È bene sapere però che congiuntivite e febbre faringo-congiuntivale tendono a colpire i ragazzi più grandi per lo più in estate.

Gli adenovirus sono altamente contagiosi: si diffondono da persona a persona attraverso le secrezioni respiratorie, per via oro-fecale oppure per trasmissione indiretta toccando superfici contaminate di mobili e altri oggetti.
Sintomi diversi a seconda dell’infezione

I sintomi delle infezioni da adenovirus cambiano a seconda della sede. Se il germe infetta per esempio le alte vie respiratorie, la sede più comune nei bambini, il malessere si presenta con sintomi molto simili all’influenza:

  • mal di gola
  • rinite
  • tosse
  • ingrossamento dei linfonodi

In alcuni soggetti può manifestasi anche una tosse secca che ricorda la pertosse. Quando il virus si “ferma” alle alte vie respiratorie si parla di infezioni di lieve e media entità che richiedono soltanto una terapia sintomatica.

Se l’adenovirus colpisce il tratto respiratorio inferiore può causare bronchiolite e polmonite virale che può essere pericolosa nei neonati.

Quando il virus infetta stomaco e intestino, in questi casi si parla di gastroenterite virale, i sintomi sono:

  • diarrea
  • vomito
  • cefalea
  • febbre
  • crampi addominali

Un’infezione delle vie urinarie può causare:

  • minzione frequente
  • bruciore
  • dolore
  • sangue nelle urine

Quando sono gli occhi a essere colpiti, possono insorgere:

  • congiuntivite o cheratocongiuntivite
  • occhi rossi
  • intolleranza alla luce
  • lacrimazione
  • dolore

Infine, la febbre faringocongiuntivale, che causa spesso piccole epidemie tra i bambini in età scolare, si verifica quando si infettano contemporaneamente occhi e tratto respiratorio.

Cure e terapie

Queste forme assomigliano molto alle infezioni batteriche, che di norma si trattano con antibiotici. Peccato però che questi farmaci siano totalmente inefficaci sugli adenovirus.

Per identificare la causa dell’infezione in modo da poter avviare un corretto trattamento il medico può, in alcuni casi, prescrivere l’analisi su campioni di secrezioni respiratorie e congiuntivali, feci, sangue o urine.

A parte i casi di vomito e diarrea nei neonati, di solito le infezioni da adenovirus non richiedono l’ospedalizzazione.

Nella maggior parte dei casi l’infezione si risolve da sola. Essenziale il riposo: il bambino deve poter dormire tranquillamente.

E poi è utile umidificare l’aria con un vaporizzatore per alleviare la congestione e, se il bambino ha meno di 6 mesi, liberare il nasino con una pompetta.

Nei bambini piccoli non bisogna usare farmaci contro raffreddore e tosse senza il controllo del medico. È possibile somministrare paracetamolo per ridurre la febbre, ma è sempre meglio chiedere al medico le dosi più opportune.

Se il bambino ha diarrea o vomito, aumentare l’assunzione di liquidi e chiedere al medico una soluzione reidratante orale per prevenire la disidratazione.

Per alleviare la congiuntivite occorre fare impacchi caldi. Unguenti o gocce oculari devono essere date al piccolo soltanto se prescritte dal medico.

Prevenzione (quasi) impossibile.

Non esiste un modo per prevenire le infezioni adenovirali nei bambini.

Per diminuire il rischio di trasmissione è fondamentale insistere affinché i bambini si lavino spesso le mani, facendo attenzione a mantenere le superfici e i giocattoli ben puliti.

[www.saperesalute.it]

La Discalculia: spunti dopo la diagnosi

Oggi vorrei fare un approfondimento sulla discalculia, un disturbo dell’apprendimento meno comune della dislessia, ma che spesso va di pari passo con altre difficoltà di apprendimento. Si tratta di una relazione che avevo scritto per un corso di pedagogia speciale, è dunque forse un po’ troppo dettagliata; l’ho qui però ridotta e semplificata. Era un peccato non inserirla, visto il problema così poco conosciuto.
Nel testo si affronta il momento che interessa gli insegnanti, più che i genitori, ovvero ciò che arriva dopo la diagnosi (o meglio la relazione educativa) fornita dagli specialisti. Anche i genitori però sono coinvolti in tutto questo, perché sono loro che a casa seguiranno i bambini nei compiti.

La presa in carico dopo la diagnosi
1. Quale percorso dopo la diagnosi?
Se le diagnosi di dislessia, disortografia e disgrafia possono essere emesse già alla fine della 2ª classe di scuola primaria, la diagnosi di discalculia deve attendere la fine della 3ª classe; spetta comunque all’insegnante il compito di interessarsi alle difficoltà in aritmetica dei suoi allievi, affinché esse non vengano trascurate in assenza di una vera e propria diagnosi.
Occupiamoci ora del percorso che devono affrontare bambino, insegnanti e famiglia, nei momenti successivi alla diagnosi di discalculia, in altre parole la presa in carico del bambino da parte dei vari attori coinvolti nella sua crescita. Citando Stella, la presa in carico è di vario genere: innanzitutto
una presa in carico riabilitativa, intervento condotto da uno specialista della riabilitazione (ad esempio il neuropsicologo); poi, una presa in carico rieducativa che coinvolge educatori, insegnanti e familiari in un progetto di respiro più ampio per tutto l’arco della scolarizzazione. È qui che si
colloca l’intervento dell’insegnante di classe o di sostegno (in caso di comorbilità con altri disturbi), intervento che ovviamente deve coinvolgere tutto il team dei decenti e i genitori.

2. Il PDP (Piano Didattico Personalizzato)
L’intervento di cui si parlava ha come primo obiettivo la stesura del PDP (Piano Didattico Personalizzato), che si distingue dal PEI (Piano Educativo Individualizzato, previsto nei casi di disabilità), per un orientamento prevalentemente didattico, in relazione alle difficoltà del bambino: la discalculia è, infatti, un disturbo nella sfera dell’apprendimento.
Il PDP rappresenta la realizzazione dell’alleanza tra gli attori: il bambino, i genitori, gli insegnanti e gli specialisti; sarebbe buona cosa che tutti partecipassero alla sua stesura, ognuno con le proprie competenze. È la legge 170/2010 che prevede questo strumento e traccia tempi e modi per garantire
un adeguato supporto agli allievi con DSA. Esistono molti modelli di PDP, qualsiasi modello si scelga, esso deve contenere: “i dati relativi all’alunno, la descrizione del funzionamento delle abilità strumentali e del processo di apprendimento e, per ogni materia, come l’insegnante intende procedere: obiettivi, strategie e metodologie didattiche, strumenti compensativi, misure dispensative, modalità di verifica e criteri di valutazione” (Stella G., Grandi L., Come leggere la dislessia e i DSA, Giunti scuola, 2011, pp. 64).

2.1. Una didattica individualizzata e personalizzata
Come si legge chiaramente nelle Linee Guida del Ministero, è necessario parlare di didattica individualizzata e personalizzata (prevista dalla legge 170/2010) senza utilizzare questi due termini come sinonimi. Come trasferire questo nella pratica didattica? Questi due aggettivi sono garanti di una didattica inclusiva: la personalizzazione ci ricorda che per tutti (non solo per i bambini speciali) è necessario calibrare l’offerta didattica sulla base dei bisogni educativi dei singoli, mentre l’individualizzazione assicura al bambino con un DSA il diritto al potenziamento al fine di migliorare determinate abilità o acquisire specifiche competenze.
Ciò che aiuta la didattica a essere individualizzata e personalizzata per un bambino con un disturbo dell’apprendimento è la presenza di misure dispensative e strumenti compensativi, che la legge 170/2010 elenca in una check-list affinché gli insegnanti non se ne dimentichino. Secondo un approccio orientato ai processi (come quello proposto da Lucangeli D., La discalculia e le difficoltà in aritmetica, Giunti scuola, 2012), però, i termini compensativo e dispensativo vengono meno: infatti, uno strumento può dispensare da un’azione, ma compensarne un’altra; se, dunque, accettiamo un’idea di plasticità cognitiva, dobbiamo ricordare che questi strumenti vanno sì garantiti agli allievi in difficoltà, ma è necessario anche, contestualmente, andare a potenziare il più possibile, anche se in tempi e modi differenti, tutti i processi implicati.

2.2. Misure dispensative
Una parte del PDP fa riferimento alla scelta di misure dispensative che vengono garantite all’alunno; queste misure devono essere scelte in base al bambino che si ha di fronte, perché non tutte sono necessarie a tutti i bambini con discalculia. Facendo una generalizzazione, però, si possono elencare quelle misure di cui un bambino con discalculia potrebbe avere bisogno: il bambino potrebbe essere esonerato dal calcolo a mente o dallo studio mnemonico delle tabelline, potrebbe necessitare di tempi più lunghi per le prove scritte e per lo studio a casa. Le Linee Guida propongono un aumento del 30% del tempo richiesto.

2.3. Strumenti compensativi
Gli strumenti compensativi sono presidii che facilitano o sostituiscono la prestazione deficitaria, si tratta di mediatori, che non annullano la difficoltà, ma facilitano il successo negli apprendimenti. Molto utili sono le tabelle: la linea dei numeri, la tavola pitagorica per le tabelline, la tabella delle
misure e delle formule geometriche e altre tabelle con conversioni delle misure o procedure e il continuo riferimento al libro di testo (strumenti non tecnologici). Strumenti a bassa tecnologia sono la calcolatrice e l’orologio parlante, mentre ad alta tecnologia il computer (che permette, ad esempio, i fogli elettronici per il calcolo e la sintesi vocale) e la LIM, per costruire insieme a tutta la classe strumenti utili a tutti; è compito degli insegnanti stabilire quando, come e se introdurre questi strumenti, in base al caso che si ha di fronte.

2.4. Una riflessione su misure/strumenti e processi implicati
Come si diceva in 2.1., strumenti compensativi e misure dispensative sono utili, ma devono essere utilizzati con un certo buon senso. È sconsigliabile, infatti, pensare che questi sussidi siano sostituitivi: è diritto del bambino con discalculia potenziare, per quanto è possibile, tutti i processi che servono all’intelligenza numerica e di conseguenza alla vita di tutti i giorni. Un esempio è la scelta di fornire la calcolatrice: essa è utile se il calcolo non è l’obiettivo, come nella risoluzione di un problema, ma non risolve momenti di vita pratica, come l’uso del denaro o confusione nel digitare i numeri sulla tastiera. Dunque, prima o parallelamente all’uso della calcolatrice, l’insegnante deve cercare di lavorare con il bambino (e la classe) su processi come la transcodifica, gli algoritmi di calcolo e le strategie metacognitive messe in atto.

3. Possibili percorsi di potenziamento
Molti allievi possono incontrare difficoltà in matematica; le riflessioni che facciamo ora, dunque, possono interessare non solo gli studenti con discalculia. Questi ultimi, però, manifestano difficoltà conclamate di cui l’insegnante deve farsi carico, nel rispetto della personalizzazione del progetto didattico di cui si parlava prima e dell’individualizzazione di cui egli ha diritto. Si presenteranno, quindi, alcuni percorsi d’intervento possibili, nella prospettiva di una didattica inclusiva; si tiene conto dell’alunno inserito nel contesto classe, ma anche delle sue personali necessità.
Per essere maggiormente chiari nella trattazione, dobbiamo seguire quelli che sono i nuclei fondanti della disciplina, in cui l’allievo con discalculia incontra notevoli difficoltà.

3.1. Il sistema del numero
Il sistema del numero è preposto alla comprensione e produzione dei numeri. Nel caso della discalculia evolutiva pura la difficoltà sta proprio nella strutturazione cognitiva della conoscenza numerica, tale per cui il bambino non è in grado di capire le quantità e le loro trasformazioni.
Questa difficoltà si manifesta su più meccanismi:
– meccanismi semantici: il bambino non comprende la quantità e dunque la numerosità, la comparazione, la seriazione e il conteggio. Per questo è utile fornire al bambino uno strumento compensativo come la linea dei numeri, fondamentale per alleggerire il compito, permettendo di orientarsi facilmente e poter accedere a tutta una serie di compiti, come contare, fare calcoli, ricordare le tabelline, ecc;
– meccanismi lessicali: il bambino non riesce a passare dal codice linguistico a quello matematico e viceversa. Non assegnare il nome corretto al numero, non saper tradurre la quantità nell’etichetta numerica è un problema che nemmeno la calcolatrice può ovviare: potrebbe venire in aiuto la sintesi vocale o la calcolatrice parlante;
– meccanismi sintattici: il bambino non comprende il valore posizionale delle cifre, come ad esempio la differenza tra le decine e le unità, questi errori mettono poi in difficoltà nel momento in cui si passa al calcolo.
Difficoltà nel sistema del numero portano a conseguenze sociali abbastanza evidenti, come la mancata padronanza dei quantificatori di tempo e spazio. Ad esempio, molti bambini con discalculia hanno enormi difficoltà con l’uso dell’orologio e prediligono quello digitale: sarebbe utile fare con tutta la classe un percorso sulla lettura dell’orologio analogico, come proposto da Stella, soffermandosi sulla rappresentazione visiva; grazie all’uso delle lancette corta e lunga e a disegni in cui inserire la corrispondenza tra numeri e minuti, l’esercizio sarebbe di giovamento per tutta la classe.
Un altro problema che il bambino può portarsi dietro anche nella vita di tutti i giorni riguarda le equivalenze, tasto dolente anche per molti bambini senza particolari difficoltà: lavorare con la classe sulle trasformazioni e fornire al bambino delle tabelle per dispensarlo dalla memorizzazione e aiutarlo a visualizzare i passaggi può essere molto utile.

3.2. Il sistema del calcolo
Anche il sistema del calcolo contiene al suo interno meccanismi che mettono in difficoltà il bambino con discalculia:
– le procedure esecutive: nell’eseguire le operazioni aritmetiche, spesso il bambino confonde i segni o non riesce a incolonnare bene e a collocare i vari elementi dell’operazione (ad esempio, i riporti). È utile, allora, utilizzare delle tabelle con indicazione delle unità, decine, centinaia, ecc;
– i fatti numerici: si tratta delle combinazioni più frequenti di numeri, come ad esempio le tabelline. Le difficoltà nella memorizzazione impediscono di imparare tabelline e proprietà delle operazioni: è necessario fornire tavole e lavorare con tutta la classe su strategie di recupero delle informazioni (ad
esempio, se non ricordo una proprietà la posso ricavare); questi ausili non sono facilitazioni, ma permettono all’allievo di concentrarsi sul compito senza dover fare uno sforzo per lui eccessivo. Anche i compagni di classe possono avere a disposizione gli stessi strumenti, affinché ne accettino l’uso da parte del compagno, anche se in un clima di inclusione spesso i compagni comprendono le necessità del bambino e non ne fanno un problema;
– il calcolo scritto: le conoscenze richieste sono quelle procedurali e coinvolgono molti aspetti dell’aritmetica, come procedimenti diversi e regole specifiche per ogni operazione. Un esempio sono le espressioni, che necessitano di diverse abilità contemporaneamente; per le espressioni, un suggerimento utile per tutti è di far svolgere un’operazione per volta concentrandosi sull’ordine di esecuzione dei passaggi (ordine delle parentesi);
– il calcolo a mente: diversi sono i processi cognitivi coinvolti, non solo la memoria di lavoro ma anche altre strategie come composizione e scomposizione, proprietà delle operazioni, arrotondamenti e altri fatti numerici. È utile che tutta la classe lavori sul calcolo a mente, processo di manipolazione cognitiva per il potenziamento dell’intelligenza numerica.

3.3. I problemi
La comunità scientifica ha stabilito quasi all’unanimità la non incidenza della discalculia nella risoluzione dei problemi aritmetici, questi non vengono, infatti, inclusi nella diagnosi. Nella pratica didattica, però, si può osservare come il bambino con discalculia si trovi in difficoltà di fronte ai
problemi aritmetici: se per i bambini dislessici il problema si trova nella decodifica e nella comprensione del testo, per il bambino con discalculia risulta difficile la parte della risoluzione: la pianificazione dei passaggi e il calcolo. È utile per questi bambini poter rappresentare graficamente il problema e avere a che fare con numeri semplici, oppure poter usare la calcolatrice. Togliendo il problema del calcolo si può far sì che il bambino si concentri sul ragionamento e sulla comprensione del testo del problema, evitando di correre il rischio che il processo di problem solving messo in atto sia inficiato dalle difficoltà di calcolo.

4. La valutazione
Una riflessione su come strutturare e valutare le verifiche di matematica è necessaria. È sicuramente un aspetto su cui riflettere, in particolare riguardo alla costruzione delle prove, perché dalla loro struttura dipende la valutazione dell’allievo. Non bisogna far copiare il testo dalla lavagna, in quanto l’alunno potrebbe incorrere in errori di trascrizione, inoltre questi errori possono capitare anche nell’uso della calcolatrice: è bene verificare la conoscenza delle procedure, piuttosto che del risultato. Dati i problemi di memorizzazione, è meglio osservare i processi messi in atto anziché chiedere definizioni e formule. Come sempre, è utile l’utilizzo di tabelle compensative che dispensino dalla memorizzazione se quello non è il processo su cui si sta lavorando.

5. Una riflessione conclusiva
La normativa (legge 170/2010, le relative Linee Guida del 2011 e altre Circolari e note ministeriali) ci fornisce un quadro generale da tener presente per aumentare le nostre competenze, Una caratteristica comune, però, di questi disturbi è la complessa e ricca diversità da caso a caso, che non ci permette di generalizzare, nemmeno riguardo a strategie e strumenti, perché ogni bambino che ci troviamo di fronte è diverso dall’altro: una sfida comunque presente nella didattica “non speciale” ma che si fa ancora più difficile davanti ai disturbi dell’apprendimento.
Servono allora alcune indicazioni generali, che prendiamo da Stella: innanzitutto coinvolgere la famiglia e il bambino nei percorsi e nei progetti didattici, poi instaurare in classe un clima sereno, collaborativo e di non giudizio, affinché le “facilitazioni” eventualmente offerte al bambino non siano motivo di discussione e, sempre a questo riguardo, offrire a tutta la classe in alcuni momenti l’ausilio degli stessi strumenti compensativi se utili alla collettività.

BIBLIOGRAFIA UTILE
Cornoldi C., Zaccaria S., In classe ho un bambino che…, Giunti edizioni, 2012.
Lucangeli D., La discalculia e le difficoltà in aritmetica, Giunti scuola, 2012.
Stella G., In classe con un allievo con disordini dell’apprendimento, 2001.
Stella G., Grandi L., Come leggere la dislessia e i DSA, Giunti scuola, 2011.
Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento, 2011.

SITOGRAFIA (GUIDE PREZIOSISSIME!)
Grandi L. (a cura di), Guida alla dislessia per i genitori. Dalla scuola materna all’università. PDF scaricabile da: http://www.aiditalia.org/upload/guida_genitori.pdf.
Troiano M., Zuccaro P., Dislessia Vademecum. Disturbi Specifici di Apprendimento. PDF scaricabile da: http://www.aiditalia.org/upload/guida_genitori.pdf.
È dislessia? Piccola guida per insegnanti utile a conoscere i Disturbi Specifici di Apprendimento e costruire una rete. PDF scaricabile da: http://www.dislessiainrete.org/guida-per-insegnanti.html.

by  Lorena Figini – http://pedagogiaedidattica.blogspot.it/

Bambini e paure, è una questione di olfatto.

I piccoli imparano cosa temere annusando la loro mamma

Sono le madri a trasmettere le paure ai loro figli. O, almeno, sembra essere questo ciò che potrebbe succedere nei primi giorni di vita, quando i piccoli potrebbero acquisire le esperienze materne ancora prima di fare le proprie. A suggerirlo sono i risultati di uno studio pubblicato su Pnas da Jacek Debiec e Regina Marie Sullivan, ricercatori della Scuola di Medicina della New York University e dell’Università del Michigan, che hanno scoperto che nei ratti le paure sviluppate dalla madre prima di una gravidanza vengono trasmesse ai loro cuccioli semplicemente attraverso l’olfatto. In particolare, attraverso un meccanismo che coinvolge l’amigdala – un’area del cervello fondamentale nello sviluppo delle paure e che durante la vita adulta consente di riconoscere i pericoli e pianificare opportune reazioni – già nei primi giorni di vita i piccoli “assorbono” le paure della loro mamma annusando l’odore che emette quando è impaurita.

Debiec e Sullivan sono arrivati a queste conclusioni al termine di una serie di esperimenti che ha previsto di far associare la paura di uno stimolo doloroso alla fragranza di menta a delle femmine di ratto prima che rimanessero incinte. Dopo le loro gravidanze è stata invece analizzata la capacità della fragranza di menta di indurre la paura nei loro cuccioli. Ne è emerso che ai piccoli basta aver annusato l’odore della loro mamma impaurita dalla fragranza per sviluppare a loro volta la paura nei confronti dell’odore di menta.

“La nostra ricerca – spiega Diebec – dimostra che i neonati possono imparare dall’espressione della paura da parte delle madri molto precocemente nella vita”. Rispetto ad altre forme di apprendimento tipiche dell’infanzia quella delle paure ha inoltre una peculiarità: dura nel tempo. Questa scoperta va però oltre la curiosità scientifica e potrebbe aiutare a risolvere quello che fino ad oggi è parso un vero e proprio enigma, cioè in che modo le esperienze traumatiche vissute da una donna possano influenzare profondamente i suoi figli anche quando risalgono a molto tempo prima della loro nascita. Non solo, i ricercatori sperano che il loro lavoro possa aiutare un giorno a capire perché non tutti i figli di donne che hanno subito dei traumi o affette da problemi come depressione e fobie sono destinati ad avere a che fare con gli stessi disturbi.

www.ilsole24ore.it  –  Silvia Soligon.

La dislessia evolutiva (D.E.)

È una difficoltà selettiva nella lettura che coinvolge la rapidità e la correttezza con cui si legge. Ridurre il disagio è possibile, ma è indispensabile intervenire precocemente.

La Dislessia Evolutiva (D.E.) è una difficoltà selettiva nella lettura, in presenza di
– capacità cognitive adeguate;
– adeguate opportunità sociali e relazionali;
e in assenza di
– deficit sensoriali e neurologici;
– disturbi psicologici primari.
Nella D.E. le difficoltà del bambino interferiscono nella vita quotidiana e nel proseguimento degli studi, e persistono nonostante un’istruzione scolastica normale.
In Italia colpisce circa il 4% dei bambini in età scolare.
Spesso le difficoltà di lettura si associano a
– difficoltà nella scrittura (disortografia);
– difficoltà nell’aritmetica;
anche se non necessariamente con la stessa intensità, perché queste tre abilità (lettura, scrittura e aritmetica) presentano delle basi comuni. Si parla, infatti, di sindrome dislessica.
vedi anche Disturbi specifici dell’apprendimento
A volte, nella storia di bambini con D.E. troviamo, in età prescolare, ritardo o disturbo specifico di linguaggio: infatti il bambino può avere anche risolto, nel linguaggio parlato, le difficoltà, ma si trova poi a doverle riaffrontare, ad un livello più alto, quando inizia a leggere e a scrivere.
Dalla definizione di D.E. sono esclusi tutti quei bambini che hanno un disturbo di apprendimento come effetto secondario di una causa principale (scarsa stimolazione socio-culturale, problemi neurologici, sensoriali della vista e/o dell’udito, ritardo di sviluppo, difficoltà cognitive).
Il disturbo di apprendimento di questi ultimi è, infatti, meno selettivo e più globale, riguarda le abilità cognitive in misura più generale e viene chiamato Disturbo aspecifico dell’apprendimento.

COME SI MANIFESTA?
Le difficoltà del bambino possono essere notate quando inizia a leggere e scrivere: nei casi più complessi in prima elementare, o, a volte, sin dall’ultimo anno di scuola materna (se si svolgono gli esercizi di pre-lettura e pre-scrittura). Nei casi più lievi, cominciano a notarsi dalla terza elementare, quando la lettura e la scrittura dovrebbero diventare automatiche e non lo sono.
È possibile riconoscere dei possibili segni quando il bambino
– legge in modo poco fluente;
– legge commettendo errori;
– a volte sembra non ricordare o non comprendere quello che legge;
– spesso commette errori anche quando scrive;
– scrive in modo poco comprensibile;
– spesso ha difficoltà in aritmetica;
– si distrae facilmente.

QUALI DIFFICOLTA’ DI LETTURA?
Nella D.E. ciò che è disturbato della lettura è la “decodifica”, cioè la rapidità e la correttezza con cui si legge.
La rapidità di lettura viene più comunemente valutata con un parametro statistico: nella D.E. essa è significativamente inferiore (2 o più “deviazioni standard”) a quella media dei soggetti della stessa età e livello di scolarizzazione.
Riguardo la correttezza di lettura ci sono degli errori “tipici”:
– errori di tipo visivo, che consistono nello scambio di lettere che hanno tratti visivi simili o speculari (“e” con ” a”, “r” con “e”, “m” con “n”, “b” con “d”, “p” con “q”);
– errori di tipo fonologico, riguardanti lo scambio di lettere che hanno la stessa “radice” (“f” con “v”, “c” con “g”);
– errori di “anticipazione”, cioè una parola letta al posto di un’altra, a cui si accomuna o per lettere iniziali o per significato (es, Algeri con allegri, chissà con chiese, sono stato con sono andato).
Questo accade perché nella D.E. possono essere disturbate una o entrambe le strategie con le quali possiamo leggere:
– la strategia lessicale, con la quale noi guardiamo la parola e la riconosciamo, quindi la diciamo scegliendola tra tutte le parole che conosciamo;
– la strategia fonologica, con la quale c’è un riconoscimento visivo delle singole lettere e un relativo accoppiamento con il fonema corrispondente. Le lettere poi vengono fuse insieme e si ha la parola.
Quest’ultima strategia si usa, nella lingua italiana, quando si impara a leggere, o si legge una lingua straniera, o si legge senza capire. Generalmente i bambini di lingua italiana già alla fine della prima elementare iniziano ad adottare una strategia lessicale di lettura.
La comprensione del testo nella D.E. è variabile, può anche essere buona o sufficiente, dipende molto dalla qualità della decodifica.

CAUSE DEL DISTURBO
Sulle cause della D.E. si è molto discusso in questi ultimi anni: inizialmente sono state fatte ipotesi di deficit percettivo-sensoriali; per lungo tempo poi si è pensato che le origini potessero essere di natura psico-affettiva (approccio sbagliato di genitori o insegnanti, problemi emotivi o relazionali, o di struttura della personalità del bambino).
Le ricerche più recenti sull’argomento confermano l’ipotesi di un’origine costituzionale della D.E.: una base genetica e biologica dà la predisposizione al disturbo, anche se ancora non ne sono stati precisati i meccanismi esatti.
Su di essa contribuisce in modo significativo l’ambiente (inteso anche come ambiente socio-culturale dei genitori), nell’amplificare o contenere il disturbo.
A favore di questa ipotesi ci sono diverse evidenze:
– la tendenza della D.E. alla familiarità, cioè ad essere presente in più membri di una stessa famiglia, anche se con intensità diversa;
– il fatto che nelle coppie di gemelli omozigoti (provenienti, cioè, da uno stesso ovulo, quindi con lo stesso corredo genetico) è molto frequente che entrambi i bambini presentino D.E. o che non la presentino, rispetto alle coppie di gemelli dizigoti (provenienti da due ovuli diversi);
– la tendenza della D.E. a persistere nel tempo, modificandosi, attenuandosi in alcune componenti: di dislessia, cioè, non si guarisce, anche se si può migliorare molto. In particolare, il processo di lettura non diventa mai automatico.
A volte può coesistere la presenza di difficoltà di attenzione e di D.E.
Di solito i bambini dislessici hanno difficoltà a mantenere a lungo l’attenzione a scuola, anzi spesso sono proprio queste difficoltà attentive che vengono rilevate dagli insegnanti.
Bisogna distinguere, nella clinica, se esse sono primarie (un disturbo dell’attenzione è, co-presente, insieme, al disturbo specifico di apprendimento) o se sono secondarie alle difficoltà di apprendimento: in questi casi, il bambino può raggiungere una soglia massima di affaticamento proprio per sovraccarico di risorse attentive e quindi si sottrae all’impegno per lui insostenibile.

LA DIAGNOSI
Una volta esclusi fattori eziologici organici (neurologici o sensoriali), la diagnosi della D.E. (e di un Disturbo di Apprendimento in senso lato), deve essere sia neuropsicologica che globale.
La difficoltà del bambino deve essere cioè analizzata nelle sue componenti per capire le aree di difficoltà, e, soprattutto, le strategie che usa, quelle che non usa e quelle che potrebbe usare.
La diagnosi neuropsicologica deve riguardare quindi tutte le aree di “funzionamento” del bambino:
– le sue capacità cognitive;
– le abilità visuo-motorie, prassiche e spaziali;
– la memoria;
– il linguaggio;
– l’apprendimento in senso stretto (lettura, scrittura e aritmetica);
– l’attenzione;
e deve essere effettuata con tests standardizzati.
A questo proposito l’Associazione Italiana Dislessia (A.I.D.) ha messo a punto un protocollo diagnostico di base per la valutazione dei Disturbi di Apprendimento della Lettura, Scrittura, Calcolo (vedi il sito web www.dislessia.it).
È inoltre importante considerare, da un punto di vista psicologico più generale, la personalità del bambino e come egli vive la sua difficoltà.
È quindi essenziale un collegamento tra lo psicologo e il neuropsichiatra che fanno la diagnosi, il terapista e gli insegnanti.
È opportuno che si costituisca una rete intorno al bambino e che ci sia un approccio omogeneo: da questo dipende in gran parte l’esito favorevole degli interventi.

COSA FARE IN PRESENZA DI D.E.
In presenza di una D.E. (soprattutto se il bambino è nel primo ciclo di scuola elementare) si consiglia una terapia di linguaggio o una terapia neuropsicologica.
È molto importante la precocità dell’intervento: quanto più esso è precoce, tanto più si può intervenire sulla difficoltà del bambino, cercando sia di ridurla, sia di stimolare strategie cognitive per “aggirare l’ostacolo”, prevenendone anche le pesanti conseguenze sul piano psicologico.
È altrettanto importante che l’ambiente familiare e scolastico vada incontro alle difficoltà del bambino che non si possono modificare, aiutandolo nella ricerca delle strategie di compenso e nella costruzione di un’immagine di sé non fallimentare.
È poi indispensabile un adattamento della didattica alle difficoltà di apprendimento del bambino, con l’adozione di strategie compensative o dispensative del compito (lettura silenziosa, uso di un lettore, libri “parlanti”, uso del registratore, uso del computer per la scrittura, ecc…).
Secondo un neurologo inglese, Critchley, il futuro di un bambino con D.E. è tanto migliore:
– quanto migliori sono le sue capacità cognitive;
– quanto più precoce è l’intervento;
-quanto più il bambino e il suo disturbo vengono compresi dall’ambiente (evitando aspettative eccessive o colpevolizzazioni o rassegnazione);
– quanto più adeguato è l’atteggiamento didattico;
– infine quanto maggiore è l’equilibrio psichico del bambino stesso.
Sono elementi sfavorenti, invece, il bilinguismo, i frequenti cambiamenti di classe (e di insegnante), un numero elevato di assenze da scuola, atteggiamenti iperprotettivi sul bambino che possono non permettergli di affrontare le sue difficoltà.

QUALE DISAGIO PER IL BAMBINO
Il bambino con D.E. ha quasi sempre un disagio psicologico conseguente al vissuto delle proprie difficoltà di apprendimento.
Egli, infatti, è il primo a percepire la propria difficoltà vivendola; generalmente tuttavia non sa darsi spiegazioni e tutto ciò ha ripercussioni negative sulla sua autostima e in genere sulla formazione della sua personalità.
Questo disagio può tradursi in disturbi di comportamento (fa il buffone o disturba in classe), rifiuto della scuola, inibizione, chiusura in se stesso, atteggiamenti di disinteresse da tutto ciò che può richiedere impegno, depressione o altri tratti psicopatologici.
Ancora oggi, in un bambino con D.E. spesso vengono notate proprio le difficoltà psicologiche prima delle sue difficoltà di apprendimento.
È molto importante che l’ambiente in cui un bambino con D.E. vive (la famiglia, la scuola) non neghi o fraintenda la sua difficoltà, ma lo aiuti ad affrontare la realtà: i bambini devono sentirsi capiti ed aiutati, concretamente, a casa e a scuola.

www.ospedalebambinogesu.it  –  Dott.ssa Luigia Milani – Neuropsichiatria infantile.

L’attività fisica nel bambino: dall’età prescolare ai 12 anni.

Nel nostro paese la pratica dell’attività fisica in età evolutiva è molto diffusa perché aiuta il bambino a:

– crescere in modo armonico;

– facilitare la vita di relazione con i coetanei, anche favorendo il confronto e la competizione.

Nei primi anni di vita (età pre-scolare) è consigliabile, quando possibile, la pratica del nuoto che dispone il bambino a muoversi nell’acqua con facilità (acquaticità) e senza timore. Imparare a nuotare è inoltre quasi un dovere sociale in Italia, paese proiettato nel Mediterraneo e contornato in massima parte dal mare.

La prima fase dell’età scolare deve prevedere un’attività fisica aspecifica: il bambino non deve essere indirizzato verso una sola disciplina, ma deve praticare discipline diverse di suo gradimento, sempre con uno spirito di gioco e non di competizione.

Dai 10-12 anni si può iniziare a parlare di attività fisica competitiva, ponendo più attenzione ad una singola disciplina. Nel nostro paese la pratica del calcio è molto diffusa nei soggetti di sesso maschile. Come tutte le discipline, esso consente al bambino uno sviluppo psico-fisico buono, quando si effettua la preparazione fisica generale e non solo la semplice pratica del gioco. Le ragazze rivolgono le loro preferenze alla pallavolo, pallacanestro, nuoto e danza, tutti sport che permettono un ottimo sviluppo.

www.ospedalebambinogesu.it – Dott. Attilio Turchetta (Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica Osp. Bambino Gesù)

 

Dire di no ai bambini: quando, perché, come.

STABILIRE LIMITI  (estratto dal libro: “GENITORI CHE AVVENTURA! PRINCIPI PRATICI PER EDUCARE I FIGLI“, edizioni San Paolo, autrice Sofia Mattessich)

Circa all’età di un anno diventa necessario dire al bambino i primi “no” e cominciare così a stabilire dei limiti; di frequente i genitori esitano a farlo, un po’ per stanchezza – cedere a qualunque desiderio del figlio può sembrare in un primo tempo più facile che opporvisi –, un po’ perché desiderano non farlo soffrire.
Innanzitutto, è necessario distinguere i bisogni del bambino – esigenze che vanno soddisfatte – dai suoi desideri – che non è detto vadano esauditi. Per esempio, può darsi che un figlio, in seguito a un trasloco o a un altro cambiamento nella sua vita, richieda maggiormente la vicinanza dei genitori; sarebbe opportuno, in questo caso, che la sua esigenza venisse riconosciuta e in qualche misura soddisfatta nel periodo necessario al bambino per adattarsi. È diverso, invece, il caso di un figlio che desidera sempre addormentarsi con il genitore accanto al suo letto: si tratta di un desiderio al quale può essere bene dire “no”.
Il “no” detto con affetto, calma e fermezza è salutare; i limiti imposti al bambino devono essere stabili e coerenti (il più possibile condivisi da tutti coloro che si occupano di lui), in modo che egli abbia chiaro ciò che è permesso e ciò che è proibito. Il bambino che riesce ad averla vinta con un genitore, può esprimere un senso di trionfo in un primo momento, ma in realtà il fatto di riuscire a dominare l’adulto che si occupa di lui, di sentirsene più potente, gli trasmette insicurezza e ansia: il piccolo si sente in balìa dei suoi desideri e delle sue emozioni, senza che vi sia un adulto forte che sappia arginarli – adulto forte che dopo qualche anno il bimbo interiorizzerebbe come un’istanza mentale che gli permette di autoregolarsi. In altre parole, l’adulto che pone dei limiti – ripeto: con affetto, calma e fermezza – contribuisce a strutturare la personalità del bambino, in modo che un domani sarà lui capace di dirsi autonomamente, per esempio: “No, adesso non posso giocare, perché prima devo finire i compiti”.
Di fronte al “no”, il bambino sperimenta frustrazione e può darsi che provi rabbia; lasciamogliela esprimere, ma secondo modalità socialmente accettabili: per esempio, non accettiamo che ci prenda a calci, ma accettiamo che pesti i piedi per terra. L’esperienza della frustrazione rappresenta per il piccolo un’opportunità essenziale di imparare a far fronte alle difficoltà e di rafforzarsi. I bambini che vedono soddisfatti tutti i loro capricci non crescono felici, ma fragili.
Quando diciamo “no” a un desiderio di nostro figlio o vogliamo sgridarlo per qualche motivo, dobbiamo osservare tre passi: 1) esprimere comprensione per il suo desiderio e i suoi sentimenti; 2) mostrargli però le esigenze della realtà; 3) dargli sostegno e valorizzarlo. Per esempio, potremmo dire: “(1) Capisco che vorresti restare qui al parco a giocare con i tuoi amici e che ti dispiace dover tornare a casa, (2) ma dobbiamo rientrare, perché devo preparare la cena; (3) [quando il bambino acconsente, seppur sbuffando] bravo, ero certa che avresti capito”. Oppure: “(1) Capisco che sei arrabbiato perché quel bambino è salito sulla tua bici senza permesso, (2) ma non bisogna mai dare gli spintoni: devi chiedergli ‘puoi scendere dalla mia bici?’; (3) capita a tutti di sbagliare: sono certa che la prossima volta saprai fare meglio”. In questo modo il bambino non percepisce un genitore “cattivo” che proibisce e sgrida, ma un genitore che (1) lo capisce e (2) gli indica le esigenze della realtà che comportano anche frustrazioni – frustrazioni alle quali (3) egli è in grado di far fronte.

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Sofia Mattessich  “Genitori che avventura! Principi pratici per educare i figli”

Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 50, € 7.00 (e-book: € 2.99)

Sofia Mattessich

Genitori che avventura! Principi pratici per educare i figli.

Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 50, € 7.00 (e-book: € 2.99)

 

Capita di sovente, al termine di un incontro di formazione per genitori, di sentirsi rivolgere la richiesta di indicazioni bibliografiche valide e spendibili Non è facile fornire risposte adeguate. Non perché manchino i titoli: la letteratura al riguardo è abbastanza abbondante. Il problema sta piuttosto nel trovare testi che uniscano l’immediatezza della comunicazione ad una sufficiente dose di profondità.

Sono ovviamente da evitare quei manualetti che pretendono di impartire “istruzioni per l’uso” al genitore fornendo facili ricette da applicare ciecamente. Appare evidente che in un campo così delicato, che mette in gioco la peculiarità e l’unicità del rapporto genitore-figlio, l’unica via praticabile sia quella di proporre un “metodo”,  e quindi un atteggiamento, uno stile operativo capace di generare scelte autonome, da incarnare nelle situazioni specifiche che si presentano nella vita quotidiana.

Ma trasmettere un metodo non è cosa semplice. I testi metodologici (un esempio fra tutti : “Genitori efficaci” di Thomas Gordon)  risultano spesso difficili da assimilare per un genitore che non abbia una cultura specialistica, e che non sia avvezzo ai linguaggi delle scienze dell’educazione.

E’ a partire da queste considerazioni che ho letto con curiosità, e poi con crescente attenzione, il piccolo libro di Sofia Mattessich, psicologa specializzata nell’area dello sviluppo di bambini e adolescenti.

Il testo ha il pregio della brevità, e insieme della chiarezza espositiva. Attraverso alcune parole-chiave (relazione, conoscenza, limiti, autostima…) e con esempi pratici tratti dalla vita familiare conduce il lettore ad immedesimarsi in uno sguardo, a fare propri gesti e strategie che – lo si può leggere tra le righe – riconducono ad una precisa visione psicopedagogica dell’educazione e del ruolo genitoriale.

La centralità dell’ascolto, della relazione affettiva, l’importanza dell’empatia (“mettersi nei suoi panni”), la gestione dei limiti e delle emozioni, la correzione orientata sempre all’incoraggiamento, la promozione dell’assertività, il sostegno dell’autostima…  Sono tutti “principi”, non enunciati in modo astratto, ma documentati in azioni concrete, che si rifanno ad un modello che pone al centro il bambino, la sua vita emotiva, la sue esigenze, mettendo in discussione le pretese dell’adulto, le sue aspettative spesso esorbitanti, le sue ansie prestazionali.

Colpisce, nelle modalità espositive dell’autrice, lo sforzo costante di evidenziare il “rovescio positivo” di ogni situazione, di ogni intervento educativo. Anche l’uso dei “no”, la correzione, la gestione delle rabbie, il richiamo alle regole vengono riproposti in chiave affettiva, con una cura costante ad evitare gesti di squalifica e di disconferma, a trasmettere al figlio stima e comprensione, a privilegiare i “comandi positivi” rispetto alle critiche e alle proibizioni.  

Leggere queste pagine significa fare un piccolo percorso, prendendo le distanze dall’immagine del “figlio ideale”, per “riconoscere e valorizzare il figlio reale, quale egli è, con le sue qualità e i suoi limiti”.

 Luigi Regoliosi (Docente Facoltà Scienze dell’Educazione, Università Cattolica di Brescia)

 

 

 

 

 

I bimbi e le loro domande imbarazzanti

I bimbi e le loro domande imbarazzanti

Come nascono i bambini? Come escono dalla pancia della mamma? Da dove arrivano? Prima o poi giunge, inevitabilmente, il momento delle domande e delle risposte da dare.
Ecco cosa fare e, soprattutto, cosa dire ai nostri figli.

Dai tre anni in poi e’ normale che i nostri figli comincino ad avere curiosita’ riguardanti il sesso e le differenze tra maschietti e femminucce. Del resto la televisione, la scuola, il confronto con gli amici sono stimolazioni continue che li portano a chiedersi il perche’ di certe diversita’ e fortificano in loro la naturale voglia di sapere. Questi desideri di conoscenza non hanno nulla di preoccupante, anzi l’attenzione, proprio attorno a questa eta’, si sposta sugli organi sessuali e l’argomento stimola particolarmente la loro fantasia.I genitori, il piu’ delle volte, si trovano spiazzati e imbarazzati e non sanno come reagire. Un primo consiglio, semplice ma importante, e’ di confrontarsi con serenita’ e pazienza anche sui temi piu’ delicati, senza far pensare al piccolo di aver fatto domande indiscrete o inappropriate. e’ bene, inoltre, che tutti e due i genitori parlino con il figlio, in modo che entrambi abbiano confidenza con lui e che, soprattutto il maschio, possa sentirsi ancora più a suo agio nel confrontarsi proprio con la persona del suo stesso sesso, a cui si ispira.

E quando il bimbo pone una delle sue fatidiche domande, meglio non agitarsi e rispondergli. Sempre. Rispettando i suoi tempi e ricordando che anche forzarlo a sapere, qualora non abbia alcun interesse all’argomento, gli crea solo un’inutile ansia.

ALCUNE LETTURE CONSIGLIATE

Le domande dei bambini di Oliviero Ferraris – Bur biblioteca Universale Rizzoli.
Sessualità e bambini di Nessia Lanado – Red Edizioni.
Parlami d’amore. Educazione affettiva e sessuale dei bambini dai 3 ai 12 anni di Pélissié du Rausas Inès – Paoline Editoriale Libri.

Rimandare il momento del confronto aiuta noi a prepararci meglio, ma puo’ confondere il bambino.

Ancora, fingere di non aver capito o sentito, lo farebbe sentire poco considerato. Non ditegli bugie, ma raccontategli la verità senza essere troppo scientifici. Non serve. Rispondete solo a quello che vi ha chiesto, partendo dall’esempio più lampante e familiare: l’amore che c’è tra mamma e papà, un rapporto specialissimo fatto anche di baci e carezze che si è coronato proprio con la sua nascita.

Mamma ho paura del buio

Mamma ho paura del buio

La paura fa parte della vita.
Anche di quella dei nostri bambini. Si tratta solo di saperla affrontare.

Quando si parla di bambini, nella maggioranza dei casi le paure, oltre a far parte di uno sviluppo fisico e psicologico naturale, sono spesso frutto di fantasie che non devono, però, essere alimentate: si possono, infatti, risolvere semplicemente ascoltando i piccoli ”fifoni”, parlandone insieme e cercando di comprendere l’origine di certi sentimenti. E’ indubbio, del resto, che i nostri bimbi vengono continuamente bombardati da messaggi troppo spesso violenti. Anche la vita reale raccontata dai genitori e dagli amici, ma anche semplicemente dai telegiornali non è così rosea: disastri atmosferici, violenze, sfruttamenti di ogni sorta, malattie e povertà sono all’ordine del giorno. E’ normale che i bambini crescano, allora, con una sorta di preoccupazione continua e di insicurezza costante.
Non dobbiamo poi dimenticare che gli esseri umani, per loro natura, sono soggetti a paure ancestrali quali quella del buio, della morte, dell’essere distaccati dalla famiglia d’origine, della guerra.

La paura, se non limita la quotidianita’, e’ anche uno strumento per comprendere che esistono pericoli reali dai quali e’ opportuno prendere le doverose distanze.

Superare i piccoli terrori

Di sicuro farli sentire inadeguati o ”sbagliati” non e’ una soluzione.
Di pari passo, proteggerli sempre dalle loro paure non li aiuta comunque.
Tenerli, ad esempio, nel lettone quando la notte si svegliano li portera’ a pensare che stare da soli, nello loro cameretta, e’ davvero pericoloso e che e’ bene rifugiarsi tra le braccia di mamma e papà in ogni momento. Accendere la luce quando non vogliono affrontare l’oscurità li aiutera’ a rinforzare l’idea che il buio celi chissa’ quali mostri sconosciuti.
Usiamo, invece, racconti e favole semplici. In cui i protagonisti possono essere proprio dei bambini normali, dotati di limiti assolutamente umani, non muniti di super poteri per sconfiggere angosce reali o presunte che siano. Come Hansel e Gretel che sbaragliano con l’astuzia la strega, Biancaneve che ha la meglio sulla matrigna cattiva, il piccolo pesciolino Nemo che, dopo mille vicissitudini, ritrova il suo papa’ mostrando un coraggio da leone. In questo modo i piu’ piccoli capiranno che lo sgomento e’ normale, che le stesse paure sono superabili e la forza d’animo aiuta a vincerle.

Acqua pura a casa tua! SICURA, PRATICA ED ECOLOGICA

I VANTAGGI DEL DEPURATORE, l’acqua del rubinetto sarà:

  • Priva di cloro, calcare, metalli e altre sostanze nocive
  • Ottima non solo per bere ma anche per cucinare, mantiene e valorizza i sapori
  • Acqua pura a volontà al prezzo più basso
  • Ecologica, non produce rifiuti tossici e non necessita di bottiglie di plastica
  • Nessun problema di trasporto, né di peso o ingombro.

A PROPOSITO DI MINERALI
Il trattamento ad osmosi inversa fornisce un’acqua che per contenuti di sali disciolti è paragonabile alle più leggere acque oligominerali in commercio.
Acque con residuo fisso tra 20 e 50 mg/Lt.

Gli impianti Acqualife possono essere regolati per stabilire la quantità di Sali disciolti a piacimento del cliente. Nonostante la propaganda, il nostro corpo assume i minerali necessari non tanto dall’acqua ma tramite i cibi! Il latte ed il formaggio ad esempio contengono moltissimo calcio facilmente assimilabile dall’organismo. Per ottenere la stessa quantità di calcio contenuta in un etto di grana o in un litro di latte sarebbe necessario bere centinaia di litri d’acqua.
Se necessiti di minerali il medico ti farà prendere integratori e consiglierà una dieta specifica, non dirà certo di bere più acqua…
Disciolti nell’acqua potabile, oltre ai “preziosi minerali” (con cui di solito si intende calcio e magnesio, che formano anche il calcare) – ci possono essere concentrazioni anche elevate di altre sostanze non certo “preziose”.
E’ opinione di molti che sia preferibile rinunciare a pochi milligrammi di calcio pur di assicurarsi un’acqua pura, al 99% priva di altre sostanze potenzialmente nocive.

Acqualife è un prodotto  Ecogenia

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Piccoli mostri nell’armadio – “A Little Story about the Monsters in Your Closet”

Uno studio di Greenpeace rivela sostanze chimiche pericolose nei vestiti per bambini di note marche.

Sintesi del rapporto “A Little Story about the Monsters in Your Closet”.
Una nuova ricerca di Greenpeace rivela sostanze chimiche pericolose nei vestiti e nelle scarpe per bambini di note marche di abbigliamento, da quello casual e sportivo a quello di lusso.
Il rapporto “A little story about the monsters in your closet…” fa seguito a numerose ricerche pubblicate da Greenpeace nell’ambito della sua campagna “Detox”, che hanno rivelato come diverse sostanze chimiche pericolose siano presenti nei tessuti e nei prodotti in pelle, a causa del loro utilizzo nella fase di produzione. Questa ricerca conferma che l’uso di sostanze pericolose è ancora diffuso, perfino nella produzione di vestiti per bambini e neonati.
Sono stati testati 82 articoli per bambini acquistati tra maggio e giugno 2013 in 25 Paesi del mondo in negozi monomarca o da altri rivenditori autorizzati. Gli articoli sono risultati prodotti in 12 Paesi. Il campionamento comprendeva marchi popolari come American Apparel, C&A, Disney, GAP, H&M, Primark, e Uniqlo e marchi di abbigliamento sportivo come Adidas, LiNing, Nike e Puma, per arrivare a marchi del lusso come Burberry. I prodotti sono stati inviati ai laboratori di Greenpeace presso l’Università di Exeter in Gran Bretagna, da dove sono stati smistati a laboratori indipendenti accreditati. In tutti i campioni è stata ricercata la presenza dei nonilfenoli etossilati (NPEs); alcuni prodotti sono stati analizzati anche per verificare la presenza di ftalati, composti organostannici e composti chimici perfluorurati (PFCs) o antimonio, nei casi in cui il tipo di prodotto giustificava ulteriori analisi. I test per rilevare l’antimonio sono stati condotti dai laboratori di Greenpeace presso l’Università di Exeter. Nonostante i prodotti acquistati fossero destinati a bambini e neonati, non è stata riscontrata una differenza significativa tra il livello di sostanze chimiche rilevate in questo studio e quello riscontrato in analisi precedenti (per lo stesso tipo di sostanze chimiche pericolose) su capi di abbigliamento per adulti (uomo/donna).

Nonilfenoli etossilati (NPEs): sono stati trovati in 50 prodotti su 82, a livelli che vanno da appena 1 mg/kg (il limite di rilevamento) fino a 17.000 mg/kg. Si tratta del 61% di tutti i prodotti testati. Tutti i marchi hanno almeno un prodotto nel quale sono stati rilevati nonilfenoli etossilati. I marchi con i livelli più elevati di NPEs nei loro prodotti (superiori a 1.000 mg/kg) sono C&A, Disney e American Apparel. I valori rilevati per Burberry non sono molto inferiori, con 780 mg/kg in uno dei prodotti. I NPEs sono stati rilevati in prodotti provenienti da 10 Paesi di produzione su 12.

• Gli ftalati sono stati trovati in 33 campioni dei 35 che presentavano stampe al plastisol. Due di questi campioni contenevano concentrazioni molto elevate di ftalati se confrontati con precedenti analisi effettuate da Greenpeace: una maglietta di Primark venduta in Germania conteneva l’ 11% di ftalati, mentre una tutina per bambini di American Apparel venduta negli Stati Uniti ne conteneva lo 0.6%. I livelli di ftalati rilevati in questi due articoli non sarebbero consentiti dalla legislazione europea, che però non si applica agli indumenti, ai giocattoli e articoli per bambini.


• I composti organo-stannici (composti organici dello stagno) sono stati trovati in tre articoli con stampe al plastisol (sui 21 testati) e in tre calzature su cinque. Le concentrazioni più elevate di composti organostannici sono state riscontrati in tre calzature di Puma e Adidas, con i livelli più elevati trovati in un paio di scarpe sportive della Puma. Per queste calzature, la concentrazione di composti organo-stannici (detta DOT) rilevata era più alta dello standard Oeko-texs – una certificazione di sostenibilità volontaria – e degli standard fissati da Adidas e Puma per i DOT nelle proprie liste di sostanze proibite.

• Uno o più PFCs (composti perfluorurati) sono stati rilevati in ciascuno dei 15 articoli testati per il rilevamento di tali sostanze. Tre prodotti Adidas, una giacca da bambino di Nike e un giacchetto di Uniqlo hanno mostrato concentrazioni relativamente elevate di PFCs (sia volatili, sia ionici). Le analisi per i PFCs ionici hanno mostrato la presenza di PFOS (perfluorottani sulfonati) in una scarpa Adidas15 e in un costume Burberry16. Le concentrazioni di PFCs e PFOA ionici trovate in un costume Adidas erano molto più elevate del limite di 1 μg/m² fissato dalla Norvegia per il 2014 e perfino da Adidas nella sua lista di sostanze proibite.


• L’antimonio è stato ritrovato in tutti e 36 gli articoli in cui è stato cercato. Si tratta di prodotti contenenti tessuti di poliestere al 100% oppure di poliestere e altre fibre.

Il ruolo delle multinazionali
Le maggiori imprese tessili che si muovono sul mercato globale possono adottare soluzioni con un impatto significativo per arrivare all’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose nell’industria nel suo complesso. Greenpeace chiede alle imprese di riconoscere l’urgenza del cambiamento e di agire da leader sulla scena globale, impegnandosi all’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose entro il 1 gennaio 2020. L’impegno che chiediamo è di avviarsi lungo un percorso ambizioso ma realizzabile, con una serie di scadenze per arrivare all’eliminazione progressiva di tutte le sostanze chimiche pericolose.
Dal lancio della campagna di Greenpeace “Detox” nel luglio 2011, 18 importanti aziende del settore dell’abbigliamento si sono impegnate pubblicamente. Mentre la maggioranza di loro si sta impegnando realmente, tre compagnie – Adidas, Nike e LiNing – non stanno tenendo fede alle loro promesse. Allo stesso tempo altri marchi non hanno ancora preso alcun impegno Detox, nonostante il loro coinvolgimento in scandali ambientali riportati in numerosi rapporti di Greenpeace (vedi nota 2). I risultati di questo rapporto in cui ogni marchio ha uno o più prodotti per bambini contenenti sostanze pericolose mostra l’urgenza con cui le aziende del settore devono ripulire la loro filiera e assicurare un futuro pulito alle prossime generazioni. Il ruolo dei governi Greenpeace chiede al governo cinese di adottare un impegno politico per arrivare all’obiettivo “Scarichi Zero” di sostanze chimiche pericolose nell’arco di una generazione. Si tratta di applicare il principio di precauzione, incluso un approccio preventivo che eviti la produzione e l’uso di sostanze pericolose e il loro successivo rilascio nell’ambiente. L’impegno deve essere seguito da una serie di politiche e regolamenti con obiettivi a breve-medio termine per il bando della produzione e l’uso di queste sostanze; una lista dinamica di sostanze che richiedono un’azione immediata (in base al principio di sostituzione) e un registro pubblico dei dati sulle emissioni e le perdite di sostanze pericolose.

Il ruolo dei consumatori

I nostri bambini meritano di vivere in un mondo libero da sostanze chimiche pericolose e gli adulti in tutto il mondo possono trasformare questo sogno in realtà.
Come genitori, cittadini globali e consumatori, agendo insieme possiamo sfidare i maggiori marchi mondiali e i governi a realizzare il cambiamento urgente di cui abbiamo bisogno. La richiesta di un mondo della moda libero da sostanze tossiche ha già visto l’impegno di 18 tra le maggiori aziende del settore, tra cui H&M, Zara, Valentino e Puma. Non fermiamoci qui. L’impegno Detox deve essere di tutti.
Io con i Piccoli Mostri non ci voglio giocare!

 

http://www.greenpeace.org/italy/Global/italy/code/2014/little-monsters/index.html

Farmaci e allattamento (tratto da www.sip.it – Società Italiana di Pediatria)

Fortemente ridimensionati i timori per l’assunzione di farmaci da parte di donne in allattamento. Tranne alcuni analgesici, psicofarmaci e fitofarmaci infatti i rischi di contaminazione del latte materno sarebbero minimi, sostiene il recentissimo aggiornamento alle linee-guida in materia effettuato dall’American Academy of Pediatrics (AAP) dopo 12 anni e pubblicato sulla rivista “Pediatrics”.

Spiega Hari Cheryl Sachs, professoressa di Pediatria alla George Washington University e al Children’s National Medical Center e consulente della Food and Drug Administration, che ha coordinato l’aggiornamento: “È l’affermazione del pensiero più attuale in materia, e deriva dalle informazioni più approfondite disponibili oggi rispetto al 2001, quando le linee-guida AAP sui farmaci in allattamento sono state pubblicate. Il messaggio è: prima di far interrompere l’allattamento al seno alle pazienti bisogna valutare bene la questione”. Secondo l’AAP infatti la maggior parte dei farmaci non si concentra nel latte materno in livelli clinicamente significativi. L’assunzione di alcuni narcotici (codeina, idrocodone, ossicodone) è invece incompatibile con l’allattamento al seno. Nel caso di terapia con alcuni antidepressivi, antipsicotici e farmaci per l’abuso di sostanze l’allattamento deve suscitare preoccupazione, mentre in altri casi è definito “accettabile”. Capitolo a parte per alcuni prodotti erboristici: l’utilizzo dell’afrodisiaco Yohimbe può causare eventi gravi e persino letali, mentre l’iperico o erba di San Giovanni causa coliche, sonnolenza e letargia nei neonati allattati al seno.

“È una pubblicazione che attendevamo da lungo tempo”, spiega Ruth Lawrence, esperta di allattamento al seno presso l’University of Rochester Medical Center di Rochester, che non ha lavorato all’aggiornamento targato AAP. “La tendenza più diffusa tra i pediatri finora è stata: non sapendo se è pericoloso, per sicurezza sospendiamo l’allattamento al seno, mentre invece i farmaci che debbono indurre una scelta così importante sono molto pochi”. Negli Stati Uniti si stima
che circa l’80% delle neo-mamme dimesse dopo il parto allatti al seno, ma dopo 3 mesi questa percentuale si riduce al 30%, e una delle cause principali di questo calo è proprio la preoccupazione per i danni potenziali al bambino di farmaci assunti dalla madre. L’AAP raccomanda ai pediatri di chiedere informazioni dettagliate alle madri in allattamento sull’assunzione di eventuali farmaci o prodotti erboristici e ricorda che è disponibile per ogni informazione il database LactMed dei National Institutes of Health.

(David Frati  –  Fonti: Sachs HC and COMMITTEE ON DRUGS. The Transfer of Drugs and Therapeutics Into Human Breast Milk: An Update on Selected Topics. Pediatrics 2013; DOI: 10.1542/peds.2013-1985
Winslow R. Many Drugs Found Safe for Breast-Feeding Mothers. The Wall Street Journal 26/08/2013).

Autismo, la Dott.ssa Anna Pazzaglia ci aiuta a capirlo.

Iniziamo la collaborazione con la Dott.ssa Anna Pazzaglia cercando di rispondere nel modo più semplice possibile alle domande che ci avete fatto.

Che cos’è l’autismo?

L’autismo è un disturbo della sfera della comunicazione verbale e non verbale (gestuale) che impedisce al bambino di decodificare la realtà che gli sta intorno e le relazioni con gli altri nella loro reciprocità.

Che cosa caratterizza il bambino autistico?

Il bambino autistico ha serie difficoltà a sviluppare il linguaggio verbale e non verbale che può mancare del tutto o può manifestarsi con frasi ripetute e senza significato (per il linguaggio verbale).
Non riesce a relazionarsi con gli altri e vive stati di tensione emotiva che si manifestano con le stereotipie (comportamenti ripetitivi e ossessivi).

Il bambino autistico ha risposte sensoriali incoerenti sembra sordo e sembra pure che nn avverta il dolore il caldo il freddo.

Può essere un idiot savant ovvero sviluppare grosse capacità in ambiti particolari come la pittura oppure semplicemente la ripetizione mnemonica di numeri complessi in sequenza pur presentando un ritardo mentale.

Da cosa deriva l’autismo?

Non è ancora chiara l’origine ma sembra che ci siano cause ereditarie fattori dovuti a infezioni del feto danni al cromosoma X oppure al dna. E’ quai sempre presente una lesione a livello cerebrale.

Il bambino autistico ha un’intelligenza normale?

Il bambino autistico presenta un ritardo mentale atipico che è dovuto alla mancanza di possibilità di mettersi in relazione con gli altri e col mondo.Usa gli oggetti in maniera impropria cominciando dai giochi.

I bambini autistici possono parlare?

Ci sono bambini che parlano ripetendo frasi in maniera ossessiva anche frasi che hanno sentito mesi prima e che si ricordano perfettamente. Si può con una logopedia adeguata ai bisogni del soggetto agire attraverso ad esempio l’autoconversazione modalità in cui il terapista parla da solo a voce alta producendo nel bambino uno specchio per relazionarsi.

Si può aiutare un bambino nelle sue difficoltà di coordinamento psicomotorio?

Si agisce con la psicomotricità che prenderà in considerazione una dimensione ludica per il suo intervento nella quale si forma una relazione fondata sul gioco che sarà matrice di dei primi apprendimenti e delle prime comunicazioni in maniera integrata.

Come può aiutarlo un genitore?

Un genitore non deve adattarsi alla sua mancanza di movimento ma può aiutarlo insieme allo psicomotricista attraverso giochi di movimento in maniera indiretta giochi che presuppongono una distanza per indurli al movimento.

Ci sono persone che possono aiutare mio figlio a svolgere le attività quotidiane?

Si gli educatori possono realizzare un progetto su misura osservando le abilità acquisite e sviluppando quelle mancanti.

Come lavora un educatore su mio figlio?

L’educatore darà degli aiuti relazionali ovvero guiderà vostro figlio con le sue mani facendogli fare il gesto ad esempio di lavarsi le mani, farà da specchio eseguendo l’azione e poi in un secondo momento chiederà aiuto nello svolgerlo, indicherà in maniera gestuale o attraverso cartelli dove sta l’oggetto che serve in quel momento userà un suggerimento verbale come allacciati le scarpe. Tutte queste azioni mirano ad un’indipendenza graduale raggiunta con l’educatore.

Mio figlio si fa i bisogni addosso come posso aiutarlo?

Sia gli educatori che i genitori possono aiutarlo. Innanzitutto osservando i momenti della giornata in cui si fa i bisogni addosso e poi per aiutarlo a raggiungere il controllo sfinterico bisognerà anticiparlo ed accompagnarlo in bagno nei momenti rilevati con l’osservazione facendoli eseguire la sequenza senza stress e premiandolo se questa verrà svolta in maniera corretta. Di notte bisognerà svegliarlo prima dell’orario del bisogno utilizzare un pannolino mutandine e usare una luce tenue per farlo andare in bagno non immettendo nella sequenza anche l’accensione della luce principale (creando così un ulteriore complicazione nella sequenza).

Anna Pazzaglia ha master in Pedagogia speciale: progettista specializzato in percorsi di inclusione/integrazione per il “superamento degli handicaps” di 1.500 ore attivato presso l’Università di Bologna. Vive a Bologna e potete contattarla tramite la sua E-mail: annapazzaglia@alice.it o presso la nostra redazione.