“Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.
Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi.
Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un «triangolo rosso», un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i «politici» tedeschi erano assai raramente ospiti dell’infermeria, in cui d’altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l’unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria.
Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall’arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia. Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gemelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato. Arthur per l’ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto «vieux dégoûtant» e «putain de boche»; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l’abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l’unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l’unico situato nelle vicinanze di una stufa.
Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c’erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l’occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà.Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte.
Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.
…
Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «Il lavoro rende liberi».”